Non ha la faccia del profeta antimafia: la sua buona educazione fa a pugni con la franchezza letale della sua penna. Che fa male, tanto male. E’ la penna di un giornalista: «Il nostro ruolo – scrive A. Londres – non è quello di essere per o contro. E’ di girare la penna nella piaga». Lui, Paolo Borrometi, ragusano, trentaquattro anni, da anni sceglie di metter la penna nella piaga: «Denunciare, indagare, raccontare, reagire al malaffare è prendersi cura della propria terra» scrive in Un morto ogni tanto. La mia battaglia contro la mafia invisibile (Solferino, 2018). La propria terra, quella che ti ha dato i natali. Che per lui è la Sicilia babba, baciata dal sole, profumata di aranci, limoni e cadaveri. Sale, mare: «Un morto ogni tanto non scalfiva le coscienze, non creava subbuglio». Arrendersi? Mica è babbo lui: intinge la penna nella piaga, quella che fa purgare la sua terra, e fa purgare lui la piaga. Se l’intensità delle sue indagini si misurasse dalle condanne a morte che pendono sulla sua testa, sta facendo passare l’inferno all’inferno delle mafie: «E’ un conto molto amaro: col mio lavoro mi sono guadagnato cinque condanne a morte da quattro clan diversi, fra Ragusa, Siracusa, Catania». Apparentemente se ne infischiano di lui: lo deridono, riducono tutto ad una mera questione di fimmine, sembrano ignorarlo. Poi si scoprono scrivendo: “Borrometi sei morto!” Lo ammazzeranno – perchè «Cosa Nostra non lascia inevase le sue condanne a morte» -, giacchè lo temono. Allora ha già vinto. Alle minacce dei pipistrelli, risponde con nuove domande, inchieste, scavi nei sotterranei criminali. La luce contro le tenebre.
Ha scoperto e scoperchiato l’inferno guardando un pomodoro – non uno qualsiasi, quello di Pachino – sulla tavola di casa. Dove tutti vedevano un pezzo di verdura, lui intravide dell’altro: potenza dei visionari, conflitto dei profeti, forza del genio. Si mise ad inseguire il pomodorino dalla raccolta alla distribuzione, fin allo smaltimento di ciò che rimane. Risultato? Loro – le mosche cocchiere della criminalità organizzata – gli si sono messi alle calcagna, appiccicandogli il fuoco alla porta di casa, tentando di farlo ardere come un topo in gabbia. La colpa è in quel suo sguardo sottilissimo, capace di andare oltre la scorza del pomodoro e smascherando la collaborazione tra Cosa Nostra, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita, Stidda. Ha seguito il pomodoro dal campo al cassonetto, facendo tappa a Vittoria-Fondi-Milano (il viaggio magico delle agromafie). E poi ha avuto il fegato di raccontare ciò che i suoi occhi hanno veduto, che le sue mani hanno toccato: «Se il piatto è ricco sono ricchi anche gli avanzi del piatto dove si è mangiato». Un racconto scritto in solitudine, perchè il prezzo di certi racconti è il peso dell’isolamento, attutito dall’ inutile beatificazione post-mortem. Al contrario delle mafie che, pur di non soccombere, fanno gioco di squadra: «La cosiddetta agromafia ha insegnato che a volte fare squadra è molto più redditizio che farsi la guerra». I figli delle tenebre, disse l’Uomo, sono più scaltri di quelli della luce.
Borrometi, però, non tace. Da una parte percepisce d’avere fatto della sua penna un cappio al collo suo, dall’altra giura che non smetterà di dare voce alla bellezza: «Educare alla legalità è educare alla bellezza. La bellezza è potente». E la libertà va scelta: non siamo condannati alla libertà. L’unica condanna è una schiavitù a vita nei confronti dei boss. Lucifero, pirlone, è latitante di fantasia: ha noia da vendere, pur continuando ad affascinare menti imbelli. Incute, dunque, paura. Che, quant’è ironico il fato, a qualcuno fa venire ancor più voglia di stare in piedi, sulla breccia: «Spezzato, spaventato, ma io resto qui. Resisto ancora. Parlo. Scrivo. Vivo». Limoni e cadaveri, zagare e mandarini. Il mare e la merda: «La mafia è una montagna di merda» disse Peppino Impastato. Bum-bum-bum: stecchito. Non hanno stecchito, però, la profezia: Paolo Borrometi ha raccolto il suo mantello, accelerando. Un giorno, forse, l’ammazzeranno: quel giorno gli crederanno. Nel frattempo, regna il silenzio di occhi che non vogliono vedere.
(da Il Sussidiario, novembre 2018)
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