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“Ricordati del mio amore. Ricordati ogni cosa che Io ti dico, perché ti amo!”.
Come un post-it lasciato sul frigorifero, la mattina presto, prima di lasciare la casa per andare a lavorare. Come un promemoria indelebile. Perché le cose più importanti abbiamo bisogno che ci siano ripetute, affinché possiamo credere che siano vere e ci riguardino da vicino, personalmente.
«Ascolta, Israele!» segue, poi. Un imperativo-supplica. Come quello di una madre che, con delicata fermezza, prende il mento del figlio, lo alza e gli intima: «Guardami, sto parlando con te!» (sollecito, quanto mai indispensabile, visto che i ragazzi sono, ormai, per lo più costantemente, con il viso immerso in qualche schermo luminoso che ne assorbe la concentrazione!). Ascoltare con gli occhi, come suggerisce una storia mai troppo ripetuta, un’azione troppo spesso sottovalutata, in un’epoca dove multitasking è la parola d’ordine. Fermarsi e ascoltare con attenzione, invece, è forse l’antidoto alla solitudine ed alla superficialità. Siamo pieni di parole, ma, molto spesso, poveri di silenzio fatto per ascoltarle. Invece, il primo passo per comprendere anche le istruzioni più basilari (a maggior ragione, quindi, se si tratta di qualcosa di rilievo per il nostro vivere) è sempre un atteggiamento di ascolto fiducioso. La fiducia trova ragione d’esistere proprio nel ricordo del modo in cui nasce il legame. Io ti ho scelto, dice Dio. Da quell’elezione, nacque la relazione. Da quella relazione, la richiesta: fai come ti chiedo, è per il tuo bene.

«Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6, 8-9)

Una raccomandazione così influente che, ancora adesso, non sono solo raccomandazioni, ma la realtà di ogni ebreo osservante che, al momento della preghiera lega delle corde, alle mani e sulla fronte, con delle piccole scatole in legno contenenti versetti biblici.
Un ricordo, che si avvicina all’ossessione. Una raccomandazione che si fa stringente, come quelle della mamma, appena prima di partire per un Erasmus. Perché, certo, sei grande, ormai, ma, per una madre, rimane sempre “il suo bambino”, quello che non mangiava mai abbastanza e, per questo, la faceva sgridare dal pediatra, ad ogni visita di controllo: non importa se ora “il suo bambino” è alto un metro e novanta, è robusto come un armadio a due ante e, anche se non mangiasse un paio di volte, di certo non deperirebbe per tale ragione.
Tale è la premura di Dio: sa che l’uomo è facile a dimenticare. Gli suggerisce subito una modalità concreta che aiuta la sua memoria a non venire meno e tornare all’inizio della storia. Forse, è un consiglio valido anche per tante nostre storie: quando qualcosa non va, torniamo indietro, torniamo all’inizio. Cerchiamo di capire, o, meglio, ricordare, cosa abbia costituito il motivo di quell’inizio. E proviamo a ravvivarlo, come si fa col fuoco: il fuoco, lasciato a se stesso, si spegne: l’amore, non coltivato, brucia e si consuma. Ma, spesso, il fuoco cova sotto la cenere e la sapienza è saperlo riattizzare, proprio quando sembrava perduto per sempre!

La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. (Rm 13, 12)

Talvolta, abbiamo un’immagine simile, dinanzi agli occhi, quando pensiamo al tempo presente. Sono tempi oscuri, era meglio prima. Ogni tempo è “perfetto”, anzi: può essere occasione di nuova nascita. Del resto, la notte piena è più vicina alla nuova alba di quanto lo sia un tramonto, segno che, quando i segni esteriori potrebbero farci desistere da ogni speranza, la sapienza che viene dallo Spirito dovrebbe invece ravvivarla, penetrandola in profondità, nella fiducia che ogni cosa è nelle mani di Dio e nulla sfugge al suo sguardo (Mt 6,25 – 34).
«E chi è mio prossimo?» (Lc 10, 29) domanda il dottore della legge. E noi, con lui. Spesso, con la sua stessa intenzione di “sfuggire” all’opportunità di fare del bene. La Parabola del Buon Samaritano, fin troppo sfruttata, è, però, al riguardo, fin troppo chiara. Il tuo prossimo dipende da te. Sei tu che sei chiamato a farti prossimo di chi ha bisogno, persino quando, come nell’esempio citato, non è in grado di domandarlo. Persino quando il motivo per cui non lo domanda è il troppo orgoglio. L’invito è proprio questo: quando l’orgoglio diventa motivo di scontro, oppure rende impossibile la riconciliazione, se riusciamo a raggiungere la consapevolezza di questo ostacolo, siamo chiamati a frantumarlo. Perché altrimenti, in uno scontro senza posa tra orgoglio proprio ed altrui, ciò che rischia di rimanere soffocato è la possibilità di bene (insita in ogni uomo e portatrice di felicità, sia per chi lo compie che per chi lo riceve) che aspetta solo di superare la soglia dell’orgoglio, che, talvolta, ci lascia nell’immobilismo.

(Rif: letture festive ambrosiane nella V Domenica dopo il Martirio di San Giovanni Battista)


Fonte immagini:Neatly designed

Per un approfondimento più specifico sulla parabola, rimando all’articolo:
Samaritani, sulla via di Gerusalemme

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