[ Intervista a Marino Chiomento ]
Ad
accoglierti un cartello: "Bolkent in
Vusche" ("Benvenuti a Foza"). Poi silenzio, oscurità e mistero. Stelle,
luna e ululati malinconici di cani solitari. O abbandonati. Nel migliore dei
casi custodi degli ultimi greggi. Dall’alto il paese pare un abisso: cioè
un’occasione splendida d’interpretare la vita. "Un abisso a mia disposizione? Grazie per l’occasione" scrisse Paul
Claudel. Abisso abitato da un popolo che sfida la montagna per sopravvivere:
contadini e minatori, boscaioli e falegnami, apicoltori e fornai. Artisti,
poeti e letterati. Ricamatrici, massaie e pensionati. Guerrieri, giovinezze e
albergatori. Fotografi, preti e commercianti. Sparpagliati in quelle contrade
che ne hanno fatto la storia e la scomodità di un paese sempre rimasto a metà
strada tra la terra e il cielo.
O tra il
caos e la concentrazione. Governati dal tic
– tac della natura. E’ l’allodola quassù a recare l’annuncio di primavera.
A maggio la cantilena quieta del cuculo informa dei primi spostamenti
d’animali. Le prime brine e l’odore dell’antico muschio a settembre accelerano
la transumanza. E quando lo scricciolo s’addentrerà nelle feritoie delle
vecchie abitazioni sarà per annunciare il lento scendere dei primi fiocchi. E
ogni casa si chiuderà nei suoi affetti.
Magari per
partorire bellezze, stupori, immaginazioni da intagliare poi nel legno. E’
l’arte appassionata di Marino Chiomento, intagliatore-pittore-artista di Foza
(Via Labental, 4). Sobrio, taciturno e leggermente triste, dell’artista porta
le sembianze: lo sguardo grave, le parole misuratissime, i lunghi silenzi e le
mani ad accelerare il parto di pensieri che svolazzano vagabondi. Bastò un
piccolo orto e una vigna perché Tibullo e Virgilio compissero viaggi immensi
senza muoversi. Indovinandovi la sorte loro e del mondo. Come lo Stern
scrittore. O il Pascoli poeta e il Manzoni romanziere. Per proteggersi l’arte
Marino s’è scelto la sobrietà del legno, del vecchio cedro che campeggia
statuario a difesa di casa e di quell’erba verde lucidata dalle stelle
silenziose. Intaglia per parlare, parla per esprimersi, s’esprime per dar voce
alle emozioni.
La sua è
una liturgia che riveste di sacralità il legno. Perché, in fondo, essere
artista è sfacciatamente semplice. Nel legno abita già l’opera completa: anche
se nascosta. Basta tirarla fuori.
Cioè
essere artisti. Questione d’ispirazione.
Lei è un artista: complimenti. Ammessa come postulato
la presenza del genio dentro di lei, come si fa trasformare un pezzo di legno
in un’immagine che parla senza parlare?
«Non sono
un artista (è l’umile modestia che li
accomuna tutti, ndr). Semplicemente mi piace lavorare il legno: guardarlo,
accarezzarlo, intagliarlo, parlargli. Avvertirne la sua nascita tra le mani: è
un parto anche questo. Con una sua lenta e meditata gestazione. Tutto scocca da
uno scorcio che cattura il mio sguardo e che, per praticità, ingabbio in uno
scatto o in una fotografia. Per poter poi, supportato dalla memoria,
ricostruire nel legno l’immaginazione del pensiero. Il passaggio successivo sta
nell’architettare l’ambientazione, il tipo di paesaggio, l’abbinamento di
piante, fiori e colori. Nulla è improvvisazione: lo scultore conosce alla
perfezione l’ambente per esserci vissuto prima di disegnarlo. Il soggetto
centrale, però, rimane il paesaggio. Tutto il resto è cornice-contorno ideato e
concretizzato al momento.
Nei miei
lavori difficilmente s’incrociano persone. Un motivo c’è: quando regalo vita ai
lineamenti del paese e delle case avverto che qualcuno ci abita già dentro. Ci
vedo dentro le persone. Anche se nascoste da una finestra».
Ogni opera d’arte è un po’ un’autobiografia: la
poesia, il romanzo, la fotografia. La scultura. Le sue sono opere che, magari
velatamente, raccontano frammenti di vita, capitoli di storia, incontri,
speranze e malinconie. Narrano le increspature di un’esistenza maturata. Però
le linee sembrano richiamarsi spandendo armonia.
«L’opera
d’arte dev’essere autobiografica. In caso contrario è la fotocopia di
qualcos’altro. Prendiamo per esempio l’urlo scalfito da Edvard Munch: chi vi
s’imbatte avverte angoscia, inquietudine, afflizione, nervosismo, apprensione,
agitazione. Rispecchia l’animo del pittore nell’attimo in cui le ha regalato la
vita. Le mie, al contrario, sono opere che raccontano la serenità e a
tranquillità. La bellezza, l’armonia, l’eleganza. La quiete, la trasparenza,
l’ordine. Un occhio attento sa scorgere dietro l’opera dell’artista la
situazione del suo cuore.
I primi
quadri non li volevo vendere: mi sembrava perdere un pezzo della mia storia.
Poi mi resi conto che l’interesse della gente significava elogiarne in qualche
modo la bellezza nascosta nel quadro. Ma ancor oggi quando vedo un quadro
uscire da casa un senso di vuoto m’assale».
A perdersi nei meandri del suo genio, una cosa
rapisce la curiosità di chi l’ammira: la cura maniacale per i particolari. Le
infinite sottigliezze: l’ago di pino, la goccia d’acqua, la foglia strappata
dal vento, la pupilla della beccaccia, il becco del gallo cedrone. Ma anche le
inferriate, i comignoli, i fili d’erba.
«Una realizzazione
mi richiede moltissimo tempo. In un anno mi riescono 10-12 opere. Non di più.
In media dietro un quadro intagliato se ne stanno nascoste più di 200 ore di
lavoro, di concentrazione, di silenzio. D’attesa che l’ispirazione giunga e mi
prenda per mano. Ma nonostante il lungo lavoro, la mia passione e attenzione è
quella di curare i particolari, di dar voce a sfumature apparentemente
insignificanti, di portare alla luce il piccolo. Non importa se chi lo vede se
n’accorge. Curare il piccolo per me significa rendere più accattivante il
tutto.
Per non
parlare poi dei colori. La loro intonazione è ciò che fa passare un’opera da bella a sublime. Insomma: dietro un quadro c’è una polifonia da riuscire ad
armonizzare. Non per nulla m’ispiro lasciandomi accarezzare dalla musica
classica!».
La storia racconta e tramanda storie di geni.
Genialità espressive, espressioni geniali, composizioni eterne. Tre nomi, nel
fiume dell’arte, che vorrebbe invitare a sedersi attorno al tavolo di casa sua.
«Primo in
assoluto: Michelangelo Buonarrotti, colui che quando guardava un blocco di
marmo ci vedeva già dentro la forma dell’opera d’arte che gl’implorava la
liberazione. La Cappella Sistina la ritengo
l’emblema sublime della bellezza. Per me Michelangelo è stato più pittore che
scultore. Poi il mio conterraneo Mario Rigoni Stern e Mauro Corona, soprattutto
il "primo Corona", quello che raccontava storie di animali e di piante, di
boschi, di silenzi e di vita».
Osservandola non capisco se lei nasconda un animo triste o un animo speranzoso. O
entrambi.
«Bersaglio
centrato. Sono triste perché il mondo mi rattrista, m’incupisce, mi rende
malinconico: non capirò mai il perché della disuguaglianza. Ma nello stesso
tempo sento danzare dentro di me la speranza. Spero quando vedo voi giovani.
Che capite molto più della mia generazione. La mia è una generazione che non ha
saputo integrarsi, ha dimostrato di non aver raccolto e continuato il lavoro dei
nostri padri. Attirati dal benessere abbiamo tradito la semplicità lusinghiera
del passato. Per me i giovani non sono il futuro. Li vorrei protagonisti da
giovani, non quando saranno adulti. Chiedo troppo?».
All’Hotel
Alpi di Foza troneggia una sua opera. E’ il paese di Foza prima della
spaventosa guerra. C’è tutto: le vecchie laste di confine, il pastore, le
pecore, la chiesa e il campanile. Il pastore che rincasa al sorgere della
primavera annunciata dallo sbocciare dei crocchi. E’ quasi la vita che chiede
di rinascere. Di rimettersi in marcia. E’ l’opera d’arte a cui è più legato,
quella che lo commuove, quella in cui ritrova lo specchio della sua esistenza.
Ha mai scrutato lo sguardo di uno che sta
contemplando una sua opera d’arte? Come si comporta l’acquirente?
«Le dirò
che sono gratificato. Perché, contrariamente a tante altre realtà, la gente
prima si perde a guardare i miei quadri e poi chiede il prezzo. Di loro conservo
l’apprezzamento per i colori, le sfumature cromatiche, le pazienti rifiniture,
lo scavo all’indietro che le fa apparire un tutto tondo. Apprezzo pure le
critiche: e ne faccio tesoro».
Ultima curiosità. Anche se le spetterebbe il primo
interesse. Ma, di fronte al sublime, ha un sapore diverso: com’è nata questa
appassionante passione?
«Non sono
nato scultore. Nacqui boscaiolo d’estate e operaio d’inverno: m’adattai a tutto
pur di non allontanarmi dalle mia terra natìa. E ancor oggi fatico a staccarmi
da casa mia (la moglie annuisce, quasi a
dar credito disperato a tale situazione). Amavo la pittura. Ma nel 1995
rimasi folgorato da una gara per scultori ad Asiago. S’era risvegliato lo
scultore ch’era dentro di me. La scuola m’ha perfezionato l’arte, i dipinti di
Giovanni Forte Scerna divennero i miei manuali ispiratori. Il talento s’era
acceso».
Non le rubo più tempo: immagino debba scolpire anche
stanotte.
«Da un
mese e mezzo è come fosse scomparsa la vena creatrice. Mio fratello era una
parte di me. C’è un gallo cedrone che attende d’essere liberato in quel pezzo
di legno (l’intaglio c’è tutto: mancano i
colori). Spero di vederlo cantare presto».
Scrisse
Salvator Dalì: "Il meno che si possa
chiedere ad una scultura è che stia ferma". Perché è la vita che non sta
ferma: danza, incespica, risorge. Per interrogare, stupire e correggere
l’occhio che s’imbatte in essa. E quando il legno parla, le parole s’arrendono.
Perché l’arte è vita e la vita chiede stupore per essere compresa.
Le parole
rimangono una fonte di malintesi.
«L’altra
metà da trovare non è una donna: sei sempre tu. E’ l’altra metà di te, la parte
sconosciuta alla quale devi dare vita, per poterti finalmente incontrare. Per
sempre. Questa è la vera unione in grado di liberarci da quel sentimento di
solitudine che avvertiamo anche quando ci sentiamo con qualcuno. Allora, poi
non c’è niente di più bello che condividere con un persona la propria vita.
Però bisogna prima averne una. Una vita viva. E’ la totalità che esalta. Quando
guardi un quadro, può anche piacerti un particolare, ma è la l’insieme che ti
emoziona.
Michelangelo
Buonarrotti sosteneva che quando guardava un blocco di marmo vedeva già dentro
la forma dell’opera d’arte e che il suo lavoro non era altro che togliere il
superfluo, quello di troppo che imprigionava la statua. Anche noi siamo così.
Ogni cosa è già qui anche se non si vede. L’opera d’arte è già dentro di noi.
C’è già tutta: noi non dobbiamo fare altro che procurarci gli strumenti per
liberarla. Per liberarci. Il problema qui non è stare o no con Francesca.
Questo è un falso problema che ti serve a distrarti dall’altro, da quello vero.
Chiunque non libera quella metà di sé, chiunque non la trova, vive come un
prigioniero, e le storie d’amore non sono altro che l’ora d’aria del carcerato.
Per un carcerato l’ora d’aria è una delle cose più belle che gli possano
capitare nella vita».
(Fabio Volo, Un posto nel mondo, Mondadori 2006)