Come spesso accade, la prima lettura si rivela affascinante e, a tratti, un po’ ostica.
Il lato ostico della vicenda è senza dubbio quella liturgico: il sacrificio degli animali, bruciati, affinché il loro profumo salga a Dio quale “soave odore” (Ef 5,1) risulta, per chi vive nella nostra epoca, una sorta di retaggio ancestrale di tradizioni troppo antiche perché possiamo avvertirle come familiari. Del resto, invece, per gli antichi, ognuno di questi gesti rispondeva ad un significato e ad una simbologia così precisa da diventare un richiamo irresistibile, per chi ne visualizzava l’attuazione. Offrire un giovenco era far dono a Dio di una primizia, privarsi di qualcosa di bello e di buono per sé e darlo al proprio Signore. Dal momento che Dio non ha bocca ed arti come gli uomini, non poteva consumare, mangiandolo, il sacrificio: ecco quindi la simbologia del fumo, quale risultante di un “fuoco divorante” che, per propria natura si innalza fino al cielo, quasi a voler raggiungere la dimora dell’Altissimo.
D’altro canto, il fascino nasce invece dal constatare con un certo grato stupore come, più spesso di quanto si creda, la forza dei numeri si ritrovi ad essere impotente di fronte alla realtà. Non basta che una bugia sia ripetuta da molti, perché diventi verità – come, invece, qualcuno vorrebbe indurci a pensare. «La verità trova forza in se stessa e non nel numero dei consensi che riceve» (Benedetto XVI, discorso ai rappresentanti della Santa Sede presso le organizzazioni internazionali, 18 marzo 2006): la verità, se davvero è tale, non può essere piegata né dalla forza della violenza, né da quella – più subdola – della pressione psicologica a cui – spesso – possiamo essere sottoposti.
A fronte di questo, la prima lettura diventa allora oltremodo incoraggiante: ci ricorda che non basta la forza dei numeri ad avere ragione di qualcuno. Elia, da solo, confidando in Dio, riesce ad infliggere una vera e propria sconfitta da knock out in questa sorta di “derby religioso” disputato con i 450 sacerdoti di Baal.
«A voi, genti, ecco che cosa dico: come apostolo delle genti, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non una vita dai morti?» (Rm 11, 13-15)
La seconda lettura, dall’Epistola ai Romani, riprende espressamente la prima lettura e ci mostra un Paolo combattuto, in quanto, nonostante sia Apostolo delle Genti, si sente pur sempre parte di quel popolo d’Israele che gli ha dato i natali e verso la cui sorte non può rimanere indifferente: il popolo eletto e il suo ruolo nel disegno salvifico dell’Eterno è una delle più annose questioni ancora dibattute. Dio ha forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! afferma San Paolo. Dio non può aver mutato opinione, come fa invece la volubilità umana. La chiamata di Dio rimane irrevocabile. Tuttavia, in Cristo, la salvezza si è fatta accessibile anche a chi non ne faceva parte, facendo “dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo”, come ha modo di evidenziare lo stesso Apostolo, nella lettera agli Efesini (Ef 2,14).
Il Vangelo, con la Parabola dei vignaioli omicidi, con l’analogia fin troppo evidente con la vicenda, rischia di perdere l’incisività che dovrebbe avere, dal momento che potremmo essere tentati dall’orgoglio di pensarci dei “privilegiati”, rispetto al popolo israelitico. La più autentica chiave di lettura, per evitare fraintendimenti dannosi, risiede forse proprio nel finale del capitolo. «La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri?» (Mt 21, 42) dice Gesù, citando il Salmo 118. Riguarda certamente la vicenda di Cristo, ma dice qualcosa, più in generale, sul modo di agire di Dio. Egli infatti, , spesso, va a ripescare proprio ciò che gli esperti hanno valutato come inqualificabile (non solo non importante, ma scartabile, inutilizzabile nella costruzione dell’edificio, che è un concetto molto più forte!) e ne fa non solo una parte dell’edificio, bensì la parte più importante, quella senza la quale l’intero edificio non sarebbe in grado di reggersi. È un grande insegnamento al nostro delirio di onnipotenza! Nonostante le nostre conoscenze siano sempre oltremodo limitate, quando ci troviamo nel nostro campo, ci è difficile arrenderci perfino di fronte all’evidenza, se noi abbiamo effettuato una valutazione. Forse, anche nella nostra vita, c’è qualcosa che noi abbiamo completamente escluso, in seguito ad un processo sommario ed invece dovremmo rivalutare, basandoci sui criteri di valutazione di Dio.
(Rif: letture festive ambrosiane, nella XI Domenica dopo la Pentecoste)
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