La Prima Lettura ci propone uno tra i brani più controversi di tutta la Bibbia, che fu, in passato, oggetto di aspri dibattiti fra scienziati e teologi. Si tratta del racconto in cui Giosuè, importante condottiero israelita, conduce il suo popolo in battaglia contro i regni di Canaan, per conquistare la Terra Promessa da Jahvè. In questo episodio, in particolare, Giosuè arriva a chiedere al Signore di fermare il sole, così da permettere al popolo di continuare a combattere.
Più che la pagina in sé, in realtà, vero fulcro della questione è l’approccio stesso alla Sacra Scrittura. Vera ragione del contendere è infatti l’affermazione che, a seguito della richiesta di Giosuè, il sole si fermò e non tramontò. Ciò fu un ostacolo per l’affermazione delle ipotesi di Galileo, contrastate da chi volle vedere nella Bibbia un libro “totale” (in grado di parlare di ogni aspetto della vita), a scapito però di una profondità capace di parlare ad ogni cuore. Più che soffermarci sul significato letterale, ciò che non è influenzato dalle conoscenze tecniche del periodo è il messaggio che arriva da questo episodio. Davide ha sconfitto Golia, Israele ha conquistato Canaan. Non c’è nessun ragazzo troppo inesperto per confidare in Dio, né popolo troppo piccolo perché Egli possa dimenticarsi delle sue sofferenze.
Il nome, nella Scrittura, non è mai qualcosa di casuale. Giosuè significa “Dio salva”. È un combattente, che scende coraggiosamente in battaglia, per condurre il proprio popolo contro i bellicosi popoli al di là del Giordano. Certamente, una figura come questa ha contribuito all’incomprensione, nell’avvento di Cristo: l’aspettativa degli Israeliti, sottomessi all’Impero Romano, era quella di un nuovo liberatore militare, capace di guidare un esercito contro il nemico usurpatore che aveva le sembianze dell’Aquila di Roma. Così non sarà, con effetto destabilizzante, per l’attesa di un Messia che non è stato mandato per motivi politici e – non più – solo per il popolo d’Israele. Gesù viene a cercare chiunque si era perduto e per farci ritrovare la bellezza del legame con un Dio che possiamo chiamare “Padre nostro” e che, da sempre, ci ama di un amore infinito. In quest’amore, c’è spazio per la possibile libertà dalle schiavitù più incatenanti che l’uomo possa conoscere: il peccato e la morte.
«Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 37-39)
Spesso, nella nostra testa, s’insinua la convinzione che la fede sia una sorta di profilassi in grado di farci conseguire totale immunità dalle tribolazioni che la vita ci riserva. Non è così.
Piuttosto: nelle tribolazioni, siamo immersi nell’amore di Cristo, più forte di ogni avversità. Nulla ci è sottratto, anzi. Tuttavia, con la fede, ci è donato qualcosa di straordinario, capace di inserirci in una prospettiva totalmente diversa: è la consapevolezza che Dio non si scorda mai dei propri figli, anche – e soprattutto, come per ogni genitore – quando questi vive una difficoltà, un dolore, una prova. La presenza di Dio è garantita anche attraverso la Comunità: non può esistere fede, se non in un popolo in cammino (magari, con qualche sbandamento, qualche ribellione, qualche tradimento, persino tra i capi stessi), come accadde al popolo d’Israele nel tragitto verso la Terra Promessa. La Storia Sacra ci conferma in una certezza. Dio non sceglie i più capaci. Ma rende capaci quelli che sceglie. A ciascuno di noi resta la libertà di aderire al progetto di Chi crede in noi, fin da prima che potessimo dimostrare di essere credibili.
Rif: letture festive ambrosiane della VII Domenica dopo Pentecoste
Fonte immagine: JW