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La prima lettura, tratta dall’Esodo, ci propone l’episodio conosciuto come quello del “Roveto Ardente”. Mosè vede un cespuglio che arde, ma non si consuma; incuriosito, si avvicina, per osservare meglio l’insolito fenomeno. È in quel momento che avverte la voce di Jahvè che, chiamatolo, gli si rivela e lo invita a levarsi i sandali, in segno di rispetto perché, essendo alla presenza dell’Altissimo, il suolo da Lui toccato era da considerarsi sacro.
Questa è una delle prime rivelazioni che dio fa di se stesso all’uomo. Da sempre, l’uomo, in cerca di un senso alla propria esistenza, si fa domande su chi sia l’Autore della Vita. Svelando il proprio nome, rende esplicita la risposta filosofica sull’essenza. Se Dio è “colui che è” in Lui dimora la pienezza dell’essere, da Lui trae origine il soffio vitale che pone in moto l’esistenza di ogni creatura. Egli è così l’insostituibile presenza presenza, di cui non possiamo fare a meno (persino quando Lo neghiamo) e di cui possiamo soltanto farci riflesso, nell’amore verso il nostro prossimo. Questa presenza, intuita per indizi nell’Antico Testamento, si fa, oltre che Parola, anche carne e sangue, nella concretezza dell’essenza divina ed umana di Cristo, che si è fatto nostro fratello, per le strade del mondo.
Il brano dell’Epistola, estratto dalla Prima lettera ai Corinzi evidenzia come non sia la sapienza, bensì la forza della Parola a fondare l’operato dell’Apostolo. Al contrario di quanto solitamente richiesto dalla cultura greca, dove la retorica la fa da padrone, Paolo si gloria di non professare altro che Gesù Cristo, e questi crocifisso. Simbolicamente, ma anche concretamente, nella persona di Gesù è contenuto il kerygma (“nocciolo”) della fede cristiana: essa non si basa sulla capacità, soggettiva (cioè, differente da persona a persona) di ben parlare, ben agire o ben scrivere. L’annuncio fondamentale, affidato ad ogni cristiano, è che la morte non ha l’ultima parola. Cristo ha duellato, e vinto, con essa, spianando la strada verso il cielo. Nella consapevolezza della vita eterna, nel perdono del Padre, è di nuovo possibile l’accesso ad una vita senza fine, come alla primigenia stirpe d’Adamo.

Ne abbiamo un esempio eccellente nel limbo dantesco. Nel castello degli spiriti magni, il Sommo Poeta colloca, seppur riluttante, per dovere di giustizia, quegli uomini che, onorati dall’umanità per quella gloria concessa loro in virtù del loro spessore culturale, non sono però stati in grado di raggiungere gli onori celesti. Una cosa sola mancò loro: la fede nel Cristo venturo: quasi a sottintendere che , troppo interessati a ricercare la gloria terrena, non sono stati in grado di intuire quella possibilità di un Messia ancora da venire. Oltre alla disfatta della cultura per se stessa, questo è in realtà motivo di speranza per ciascuno di noi: così come san Tommaso d’Aquino che, toccate le vette somme della teologia si rese conto che esse non erano che paglia, a confronto dell’esperienza mistica d’incontro con Dio, così ciascuno di noi, al di là della propria intelligenza, può, in virtù della fede, raggiungere quella beatitudine eterna che mancarono Virgilio e gli altri spiriti magni, nonostante la loro enorme sapienza ed intelligenza.

Nel Vangelo, Cristo ha l’ardire di mostrarsi esplicitamente come il Maestro e l’esempio da seguire: “Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11,29). Sulle prime, la tentazione potrebbe essere quella di considerare tale frase una smargiassata. Chiunque sa che ergersi quale modello rischia sempre di rivelarsi mossa sfrontata, fino ad essere inopportuna. Ad uno sguardo più attento, però, risulta chiaro che ciò può essere detto a tutti, tranne all’Unico che ha accettato, da Dio, d’imparare ad essere uomo, in tutto come noi, eccetto che nel peccato, per liberarci dalla schiavitù del peccato che c’incatena lontano dalla versione migliore di noi stessi.

«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28): al contrario della società attuale, che insegue con fanatismo l’efficienza, incurante delle necessità, sempre diverse del singolo ed imponendo, spesso, dei ritmi unici e standardizzati, Gesù comprende stanchezza, del corpo come dell’anima. Questa Parola risulta sempre liberante, perché estremamente assertiva. Invece di focalizzarsi – esclusivamente – sul negativo, sono – anzitutto – comprensive. Comprendono, cioè, la possibilità di una stanchezza, da cui liberarsi, nell’abbraccio del Cristo. Questa stanchezza “in eccesso” è quella pre-occupazione che rischia di essere sfiducia nella Provvidenza. È giusto essere occupati (cioè, pienamente coinvolti) nei nostri compiti (educativi, lavorativi, familiari). Senza nessun pre-, però. Quando la norma è la preoccupazione, è l’ansia a sovrastare i nostri pensieri e anche ciò che in realtà è assolutamente affrontabile, rischia di diventare – addirittura – insormontabile per l’approccio con cui affrontiamo la nostra quotidianità. È in quei momenti che dovremmo riscoprire il rapporto con Gesù come momento di ristoro, per fare ordine in noi e riprendere le fila della nostra storia, con maggiore impegno, consapevolezza, ma – anche – serenità.

(Rif. letture festive ambrosiane nella VI Domenica dopo Pentecoste)


Fonte immagine: Pexels

Tags: vita, autore, genesi, mosè, roveto ardente, affaticati, oppressi, ristoro, vangelo di matteo, stanchezza, anima, corpo

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