Probabilmente, anche ai più distratti, non può essere sfuggito un particolare, della recente finale di Champions League, disputatasi lo scorso sabato a Kiev, in Ucraina, sotto lo sguardo partecipe ed interessato dell’indimenticabile Andriy Shevchenko, contornato, in campo ed in tribuna, da tanti ex – colleghi.
Il risultato (l’ennesima vittoria di un Real Madrid – cannibale), scontato ai più, non si è dimostrato tale lungo tutto il tempo intercorso il primo e l’ultimo fischio dell’arbitro. L’avversario dei blancos si è rivelato, sin dall’inizio, agguerrito ed ha dimostrato di crederci, nonostante l’infortunio occorso a Salah ed il pronostico a sfavore.Poi, però, l’incontro ha preso una piega particolare e protagonista è diventato il portiere tedesco della squadra inglese, Loris Karius.
Strano ruolo, quello del portiere, nel gioco del calcio. Quasi romantico, per quella solitudine di responsabilità e guizzi felini, un mix di potenza ed atleticità, tempismo e sangue freddo, che li fa assomigliare, alternativamente, a chirurghi, kamikaze o supereroi. Non a caso, sulla loro schiena, spesso, a campeggiare è un numero. Uno. Perché è sul loro dorso, che, spesso, grava l’intero equilibrio di una partita, o, quanto meno, gli episodi più salienti e significativi. Quelli decisivi. Specie nelle partite importanti, quando il risultato, appeso ad un filo, può improvvisamente capovolgersi, da un momento all’altro. Ruolo difficilmente ambito. Anzi, spesso, ai primi calci al pallone, relegato a quello meno bravo nei contrasti o nei palleggi, con l’unico (e malcelato) obiettivo di allontanarlo dall’azione, affinché non intervenga con il tempismo sbagliato, causando solo falli e perdite di tempo. Errori imperdonabili, quando il tempo di gioco è coraggiosamente ritagliato a mille altri impegni dei nostri indaffaratissimi bambini. Crescendo, questo ruolo riceve maggiore riconoscimento, non è più assegnato per esclusione, ma a chi dimostra di possedere doti che a nessuno degli altri giocatori sono richieste in dosi tanto massicce, come elevazione, sicurezza, tempismo, salto, visione di gioco, rinvio potente e preciso, capacità di problem solving pressoché immediata, grande empatia con il “pacchetto difensivo”. Ruolo di enorme responsabilità, riceve molto poco spesso il riconoscimento che merita (purtroppo, il più delle volte, il suo lavoro è considerato “ordinaria amministrazione”, anche quando non lo è affatto). Al contrario, nel momento in cui egli commette errori decisivi, ne rimane marchiato come di un indelebile tatuaggio, che ne segnerà, talvolta a vita, l’intera carriera. Tale è il fragile, importante, affascinante, insostituibile, eppure spesso bistrattato ruolo del portiere.
“Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce”
(U. Saba, Goal).
Rileggere ora questi versi fa quasi tornare alla mente l’immagine del biondo portiere, distrutto ed incredulo della propria ingenuità, che cerca, invano, di trovare giustificazione, o, forse giustizia, presso l’arbitro. Consapevole, da subito, quanto potesse essere determinante, ai fini del risultato, aver dato il via libera a Benzema, con quel primo goal. Eppure, se c’è una critica, è proprio vedere come, al contrario del proseguimento della poesia, né dopo il primo, né dopo il terzo gol, né alla fine della partita, il portiere sconfitto abbia potuto avere il sostegno dei propri compagni, mentre non gli è mancato il tentativo di consolazione da parte dei suoi avversari che hanno invece trovato tempo per lui. Dall’altra parte del campo, Mané ridona speranza ai suoi, firmando il pareggio e minimizzando l’errore di Karius. Pochi minuti dopo, però, il capolavoro di Bale cambia le sorti, a vantaggio del Real. C’è però tempo in abbondanza e nulla è ancora deciso. Quasi dal nulla, però, un nuovo tentativo del gallese, questa volta dalla distanza: il portiere avversario intuisce la traiettoria, intercetta, ma non riesce a bloccare, insaccando il terzo gol. Frastornato ed affranto, il giovane si è subito accorto del peso dei propri errori. E, stoppo subito la ribattuta: no, non è eccessivo. Può esserlo, ai nostri occhi, di chi guarda. Per chi guarda, il calcio è sport e passione. E, di solito, ci si dovrebbe fermare qui. Per chi scende in campo per una finale di Champions League, si tratta, oltre che di divertimento, di lavoro. E non può vivere solo la dimensione del “oggi si vince, domani si perde”. Un errore può pregiudicare una carriera, cambiare il proprio futuro lavorativo. Per chi gioca solo per passione, un errore può capitare. Per chi gioca per lavoro, equivale a fallire la relazione che può valere un avanzamento di carriera. Per fare un esempio.
Quando ormai, sul prato verde, gli occhi sono tutti per loro, per i vincitori, il protagonista in negativo realizza il gesto più coraggioso di tutta la serata. Forse di tutta la propria carriera. Si avvicina al settore occupato dai propri tifosi ed alza le mani (ora nude e non nascoste dai guanti) ripetutamente, dicendo una parola breve, in mezzo ad un pianto copioso. Chiede scusa.
Ai propri tifosi. Quelli che hanno pagato il biglietto. Quelli che hanno sostenuto la squadra. Quelli che, magari, hanno fatto sacrifici, pur di esserci. Quelli che avevano il diritto di vedere la propria squadra giocarsela fino alla fine. Quelli nei confronti dei quali sentiva di avere un debito, perché li aveva delusi.
Mi ha colpito questo gesto, perché ho pensato che non fosse affatto scontato. La prima opzione, la più gettonata, è far finta di nulla: rintanarsi negli spogliatoi, sperando che la bufera passi ed il tutto finisca – il più in fretta possibile – nel dimenticatoio. Fare i conti con gli errori, invece è coraggioso: significa avere il coraggio di guardarli in faccia, sentendosene – personalmente – responsabili. Significa non scantonare.
Ciò che ha seguito, è stato, poi, ancora meno scontato. Il pubblico ha compreso la gravità del gesto ed ha risposto con un assertivo applauso a quella richiesta di perdono. Lasciando con l’interrogativo se fosse stato più necessario ai tifosi ricevere quelle scuse o al giocatore ricevere quell’applauso – abbraccio collettivo.
Ecco, in realtà, nonostante il bel gioco (a sprazzi), il lodevole palleggio o l’intensità di tutti i 90 minuti, quei pochi secondi sono stati quelli umanamente più elevati e profondi.
Non so cosa riserverà il futuro a questo giovane coraggioso, ma non posso che augurarargli il meglio, perché trascendendo il calcio e lo sport, in quei pochi, concitati momenti, mi ha fatto riflettere sul perdono, anche, e soprattuto quando riguarda fatti molto più seri ed impegnativi di una – pur importante – partita di pallone.
Quel perdono (stra-ordinario e apparentemente “impossibile”) che ci ha insegnato a largire, persino nei riguardi degli assassini dei propri familiari, sull’esempio del Padre Misericordioso, Carlo Castagna, che si è ricongiunto ai propri cari, nella notte tra venerdì e sabato.
Fonte immagine: independent.co.uk