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Abbracciare, consolare, imboccare. E poi ancora cullare, accarezzare, incoraggiare…
I verbi dell’amore di un genitore sono tanti, una lista lunghissima, che cresce e si sviluppa nel tempo. Si arricchisce via via di nuovi vocaboli, mentre intanto altri sono lasciati nel cassettino dei ricordi, non senza qualche rimpianto. Ci sono quelli che magari sono più ad appannaggio delle madri, mentre i padri ne preferiscono altri. Esistono poi genitori che sono contemporaneamente mamma e papà, e talvolta sono costretti ad acrobazie degne dei migliori funamboli per poter coniugare quella lista, cercando di non tralasciare nessuna voce, oppure obbligati a depennarne qualcuna, con il cuore che piange, in favore di altre.
Nella Bibbia Dio è descritto come il genitore per eccellenza. Un Padre e creatore con le sfumature di una madre premurosa che corregge e sorregge. Prende per mano e guida il cammino: con Abramo fu notte stellata carica di promesse, con Israele nel deserto fu manna che nutre il corpo e Decalogo che innalza lo spirito nel rispetto verso il divino e verso il prossimo. Ma sa anche mettersi in disparte per lasciare che le sue creature imparino a procedere da sole: abitò nei sogni di Giuseppe, ad esempio, senza però entrare in azione come personaggio a tutti gli effetti. Il dipanarsi della storia della salvezza non doveva rendere gli uomini esecutori di ordini, ma collaboratori attivi e necessari, tramite la libertà delle loro scelte.
Dall’Antico al Nuovo Testamento le cose non cambiano di una virgola.
Lasciata la Pasqua alle spalle, cessato il tumulto, la gioia di incontrare ancora lo sguardo del Rabbi risorto somigliava ad un porto sicuro. Gli apostoli gongolavano nel loro piccolo spazio di felicità. Un molo in una placida baia, nella quale le barche ondeggiano tranquille e lontane dai pericoli del mare aperto. Tutto troppo bello, troppo facile: è impossibile correre rischi se ci si mette sotto una campana di vetro per non rischiare mai.
Doveva andarsene, Gesù di Nazareth.
Fare come il capo-cordata, che sale prima di tutti, apre la strada agli altri e, giunto in cima, si fa guida per quelli che lo seguono, senza perderli di vista nemmeno per un attimo.
Se la Risurrezione è roba-da-Dio, l’Ascensione è roba-da-genitori, dimostrazione che Dio è padre e madre fino in fondo. Sa quando è il momento di farsi da parte, quando è necessario smettere di tenere le mani dei figli per lasciare che imparino a camminare da soli. Si sentiranno inizialmente spaesati, perderanno l’equilibrio, avranno magari voglia di correre a rifugiarsi di nuovo tra braccia sicure, ma è l’unica via perché possano diventare se stessi.
Lo sa il Rabbi, lo sanno gli apostoli.
Spezza gli ormeggi, indicando l’orizzonte, invitando a “prendere il largo”. A levare del tutto l’ancora e a gonfiare le vele servirà la Pentecoste, intanto i discepoli assaporano il dolore del distacco. Necessario più dell’acqua in pieno deserto, dona loro quella nostalgia di Dio che ne scava gli animi perché lo Spirito possa riempirli fino all’orlo.
Il Dio della Bibbia è ben lontano dal fenomeno odierno dei “genitori spazzaneve”, quella categoria di madri e padri che – seppur animati da buone intenzioni – cercano in tutti i modi di spianare la strada ai propri pargoli, di evitare loro qualsiasi difficoltà o fallimento. È un Dio che manifesta una delle forme più alte dell’amore, il lasciar andare, con il cuore colmo di apprensione e fiducia, perché solo in questo modo l’essere umano può camminare con la libertà e la dignità di figlio.

Il vasetto era stato nascosto con la massima cura, durante la notte prima della partenza. Fu ritrovato il giorno dopo, soltanto una volta giunta a destinazione, nel momento fatidico di disfare i bagagli. Si iniziava una nuova vita, a qualche centinaio di chilometri da casa, il cuore colmo di speranze e di dubbi, di aspettative e progetti. Pieno di palline colorate con una faccina sorridente – gomme da masticare al gusto fragola – stretto tra le mani a coppa veniva contemplato come il più prezioso dei tesori.
Era il segno tangibile di un amore che accetta di fare spazio, che trema nel lasciar andare e piange lacrime di commozione, ma che trova il coraggio di tramutare una lontananza in opportunità.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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