La pallina era morbida e di color giallo fluorescente. Rimbalzava a malapena, ma era sofficissima se la stringevi tra le mani, contando poi i secondi che impiegava per tornare nella sua forma originaria. Era uno di quei giocattoli chiamati antistress, morbidi quanto bastava per essere tormentati senza troppi rimpianti. Tuttavia non fu abbastanza soffice e innocua per evitare di tormentare il vaso preferito di mamma, che cadde rovinosamente a terra, generando attimi di sincero panico nella me appena adolescente.
“Non si gioca con la palla in salotto!” erano state le ultime parole famose.
Divieto infranto, infranto anche l’amato vasellame. Inutili furono le acrobazie con colla vinilica e attaccatutto, il danno rimase in bella mostra e inequivocabile ed il severo rimprovero fu quanto mai meritato.
Riparare un utensile rotto è spesso considerata una perdita di tempo, dal momento che se ne può ottenere uno nuovo e integro semplicemente andando a ricomprarlo. E se è un oggetto unico, pazienza, tanti saluti ai cocci, gettati con sommo rimpianto e con sospiri di vero dispiacere. Ma se vivessimo in Giappone e fossimo stati educati fin da piccoli alla filosofia del buddismo zen, quei frammenti avrebbero generato meno sconforto. Sarebbero stati raccolti con cura e rimessi insieme con una modalità tanto inusuale quanto pregna di un grande insegnamento.
Il Kintsugi, letteralmente “riparare con l’oro”, è quella forma di arte artigianale che ripara gli utensili con lacca e polvere d’oro. Un metodo forse non proprio economico, ma che ha come pregio il desiderio di valorizzare la fragilità e la rottura, non nascondendole alla vista, ma tramutando venature e cicatrici in qualcosa di prezioso, unico nel suo genere. La sofferenza delle ferite risanate diventa una nuova forma di bellezza, da ammirare anche più dell’integrità precedente.
Una vera e propria riconciliazione con i difetti, un pensiero che è facile trasporre dagli oggetti ai segni che la quotidianità infligge sull’animo umano.
A leggere certi passi della Bibbia, verrebbe da pensare che questa tecnica giapponese sia stata inventata da Dio in persona, per aggiustare non del vasellame infranto, ma l’amicizia con l’uomo andata in frantumi più e più volte.
Nella Genesi, poco dopo il peccato originale, Dio “fece per l’uomo e per la donna tuniche di pelli e li rivestì.” (Genesi 3,21)
Dopo il Dio-artigiano, che si sporca le mani di terra (“modellò l’uomo con polvere del suolo”) ed il Dio-dal-pollice-verde (“piantò un giardino in Eden, fece germogliare dal suolo ogni tipo di alberi”), ecco il Dio-sarto, che cuce tuniche di pelle, per rivestire un’umanità che ha perso confidenza con lui, che preferì nascondersi al suo passaggio piuttosto che chiedere aiuto dopo essere stata ingannata dal serpente.
Se al Dio-vasaio e giardiniere gli antichi commentatori e alcuni Padri della Chiesa non ebbero nulla da obiettare, nel lavoro di sartoria videro invece quella conseguenza negativa del peccato che avrebbe sminuito la corporeità sotto quasi tutti gli aspetti. Una moda prêt-à-porter di bassa lega, da non prendere in considerazione se non per lo stretto necessario, quasi uno scarto di produzione usato come punizione per aver infranto l’originario divieto.
Eppure, pensiamoci bene, così non è. Quegli scampoli di pelle cucita in tuniche – fuor di metafora: il nostro essere umani con tutte le fragilità del caso – sono stati invece il pezzo forte della collezione d’alta moda, un capolavoro di divina misericordia da far sfilare sotto i riflettori del mondo intero per i secoli a venire.
Cacciati da Eden, uomo e donna non avevano difesa alcuna. La nudità della loro condizione non era più emblema di armonia con l’intero creato, ma anzi sintomo di una debolezza di cui la Misericordia non esitò a prendersi cura. Dio non smise nemmeno per un istante d’essere Padre amorevole e vestì le sue creature per il nuovo cammino che avrebbero intrapreso. La condizione umana diventava un dono da vivere in tutta la sua precarietà, un dono di cui Dio in persona un giorno si sarebbe fatto carico, vivendolo tutto, dalla nascita in una mangiatoia alla morte su un legno di croce.
Molto più di un vaso infranto, il rapporto di amicizia con Dio.
Rimettere insieme i cocci fu da subito iniziativa divina, offerta poi con i patriarchi, reiterata in seguito più e più volte con un popolo recalcitrante e capriccioso. Ma niente colla vinilica e soprattutto nessun tentativo di nascondere la rottura. Ogni caduta generava un sussulto d’amore, ogni crepa veniva riparata con l’oro della Misericordia le cui scorte non sembrano avere mai fine. Ecco quindi il dono di Dieci Parole di pace sulla sommità del monte Sinai. E poi ancora: la fragilità di un triplice rinnegamento, scandito dal canto di un gallo; la confusione di due discepoli disorientati lungo la strada verso Emmaus.
Un’invocazione di speranza, appesa ad una croce, ripagata con una promessa che fu amore puro riversato fino all’ultimo respiro:
“Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno.”
“In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso.” (Luca 23,42-43)
Dio è colui che riveste la nostra umana debolezza, che ripara le cicatrici del nostro vivere incerto e non prova sdegno per esse, ma anzi trova la via per renderle qualcosa di prezioso, per donare ad esse una bellezza che può essere anche più fulgida di un’integrità senza imperfezioni.