abramo

Da Ur dei Caldei, nell’attuale Iraq, al cuore dei monoteismi mondiali: Abram, il padre di molti popoli. Siamo in Mesopotamia, terra tra i due fiumi, culla delle prime civiltà. Pur non essendo un cittadino di Ur, la città rimaneva punto di riferimento per il commercio e la sosta delle carovane di pastori nomadi, a cui apparteneva il suo popolo. A Carran, una città più piccola di Ur, Abram riceve l’insolita richiesta dalla voce di Dio. «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Gen 12,1): ancor oggi, queste parole richiamano al grande coraggio di chi lascia le proprie sicurezze per mettersi in viaggio verso l’ignoto, pur con la promessa, altrettanto grande, a rincuorarne l’animo ed accompagnarne il cammino: «Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerà una benedizione» (Gen 12,2).

Abramo arriva nella terra di Canaan, ma la siccità li porta a spostarsi in Egitto; successivamente si stanzierà a Mamre. Tuttavia, nel suo cuore rimane un dispiacere. «Guarda il cielo e conta le stelle: tale sarà la tua discendenza» gli era stato detto: ma Sarai, sterile, non gli aveva dato figli e lui era ormai anziano. Abram, allora, decide di fare “a modo proprio” prendendosi come moglie Agar, la schiava di Sarai ed avendo un figlio da lei, Ismaele. Alle querce di Mamre, Abramo riceve la visita di tre viandanti (Genesi 18, in cui è vista la prefigurazione della SS. Trinità) che gli predicono che, tra un anno, Sara avrebbe avuto un bimbo tra le braccia. Sara sorrise d’incredulità, ma così avviene: nasce Isacco, il “sorriso di Dio”. Sara è però gelosa di Agar: quasi a suggerire che, quando l’uomo fa di testa propria, invece di seguire la strada di Dio, le cose non funzionano che per un breve tempo. Abram rilascia quindi Agar e il bambino: i due si perdono nel deserto, ma Dio non abbandona i due fuggiaschi e li protegge dalle insidie. Secondo la tradizione, da Ismaele discenderanno i popoli islamici.
Più avanti, Dio chiederà ad Abram di sacrificare proprio Isacco, il “figlio della sua vecchiaia”. Ancora una volta, il patriarca decide di fidarsi di questa parola, nonostante gli costi: in virtù di questa prova di fede, un angelo ferma la mano del padre, trasformandosi in invito ad un’adorazione che possa andare oltre ai sacrifici (ma il percorso di affrancamento da questo tipo di religiosità sarà, naturalmente, molto lungo).
«Ricordati» (Esodo 32, 13) è il leit-motiv di un popolo intero, quello ebraico, che riconosce nella discendenza dai propri padri il legame con il Dio del popolo d’Israele. In questo brano, è Mosè a “ricordare” a Dio la propria alleanza, nel momento in cui il popolo d’Israele si dimentica della totale alterità del patto con Dio. Infatti, probabilmente, l’episodio del vitello d’oro, a cui si fa riferimento è “meno grave” di quanto sia dipinta. Non accade, cioè, che il popolo si allontana da Dio e crede che il vitello d’oro sia dio al posto del Signore. In realtà, non comprendendo un Dio invisibile, al contrario degli idoli degli altri popoli, sente la necessità, di dargli una forma concreta, di rendergli onore in questo modo. Dio, però, non può essere plasmato da mani d’uomo: non può adattarsi alle forme che noi vorremmo imporgli. È buffo: mentre Dio rispetta la nostra libertà, noi non perdiamo occasione per imbrigliarlo nei nostri schemi mentali che, il più delle volte, altro non sono che riflesso delle nostre comodità!
Interessante notare come Mosè, pienamente consapevole del proprio ruolo, supplichi Dio di non scatenare la propria ira, nonostante, preventivamente, il Signore gli avesse già garantito «Di te invece farò una grande nazione», come a rassicurarlo: “Non ti preoccupare, non è colpa tua. Io distinguo il bene dal male. Tu hai fatto il tuo dovere, sono loro ad aver sbagliato e ne pagheranno le conseguenze!”. Mosè mette in mezzo la memoria, per fermare la mano di Dio: non nega l’errore degli Israeliti, ma ricorda a Dio, in un certo senso, chi Egli sia, la propria gloria e la fedeltà a se stesso.
Con i giudei “che avevano creduto”, Gesù compie un’opera di purificazione della memoria. La memoria non è un assoluto della fede. Non possiamo credere unicamente in virtù di una storia familiare. È necessaria una scelta personale e concreta, che passa anche dalla (quotidiana) lotta contro il Male. Serve una memoria che sia attività, non semplice ricordo passivo di ciò che è stato. Nella Prima Domenica abbiamo visto il Tentatore in azione, nella Seconda ne abbiamo viste le conseguenze. Di fronte a scelte sbagliate, rischiamo di rimanere nella nostra condizione, con la convinzione che non vi sia possibilità di uscita. Il vero peccato di orgoglio è infatti ritenere che ci possiamo salvare da soli, aggiungendo impegno, volontà, sforzi e fatica. Ma, di fronte ad un Dio che, letteralmente, ci ama fino a morire per noi, che cosa significa tutto ciò. Parafrasando lo sconcerto dei discepoli prima della moltiplicazione dei pani e dei pesci, è spontanea la domanda: Che cos’è tutto questo (qualunque contraccambio), di fronte a tanto amore?
«Se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno» (Gv 8,51): in una frase, Gesù riesce a sintetizzare il kerygma della fede cristiana. In questo risiede infatti il nucleo centrale, senza il quale perde ogni significato la vita cristiana sacramentale. È inutile la Messa, se non crediamo nella Resurrezione; inutile il Battesimo, il Matrimonio e perfino il Sacramento dell’Ordine. Senza l’intima convinzione che Cristo si è fatto uomo ed ha accettato la morte in croce, per portarci alla Vita Eterna, tutto il resto perde il proprio significato e rischia di diventare soltanto una ripetizione tradizionale “di padre in figlio”. Una tradizione che, senz’altro può umanamente arricchire, ma non fa la differenza, nella mia vita, che, a parte queste “parentesi di vita spirituale”, rischia di procedere, per il resto, come se Dio non esistesse.
«In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono» (Gv 8, 58): è questa la frase che scatena l’ira dei giudei “che gli avevano creduto”. E non un’ira tanto per dire, perché “raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui”: vogliono lapidarlo, vogliono ucciderlo, senza mezzi termini. Tanto è il fastidio di queste parole in persone “che gli avevano creduto”. Non si tratta di gente che lo osteggia, ma di persone che, a queste parole, gli diventano ostili (mentre prima non lo erano affatto). Perché? Rischiamo di perdere di vista la straordinarietà di quest’affermazione. Gesù, in questo modo dice, senza mezzi termini di essere Dio. Pronuncia il nome di Dio. Abbiamo qui quell’accusa di bestemmia che gli sarà rivolta nel sinedrio. Per un israelita, è chiarissimo, in questo passaggio, che Gesù “va fuori dal seminato”. Come può un uomo farsi Dio? In un unico caso: quando Dio si fa uomo, per farci come Lui.
Cose dell’altro mondo, insomma. Che, però, con la nostra collaborazione, possono diventare molto più reali di quanto possa sembrare!

 

(Rif: letture ambrosiane festive nella III Domenica di Quaresima)


Fonte immagine: tanogabo.com

 

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