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«Avete solo la nebbia!»: è lo sfottò con cui qualunque altro abitante della penisola apostrofa quelli della Pianura Padana. La nebbia è infatti fattore che accomuna l’esperienza di chiunque percorra la Valle formata dal Po, dal Piemonte al Veneto, passando per la Lombardia.  L’autoironia, modo per ridere di sé ed accettarsi, è sempre indispensabile, sia a livello personale che comunitario. A maggior ragione, per quanto riguarda tale dettaglio. Infatti, se da un lato, a causa dell’umidità, siamo costretti a convivenza forzosa con la nebbia, durante i mesi più freddi, l’umidità consente coltivazioni altrove impossibili (basti pensare alle coltivazioni di riso, abbondanti nel Pavese).
Tutto sommato, dunque, la presenza della nebbia non porta solo inconvenienti.
Camminare nella nebbia è esperienza quotidiana, degli inverni trascorsi nella Pianura Padana. Abbonda, però, anche nelle Highlands scozzesi, in Normandia, negli altopiani svizzeri, sulle coste della California o le coste cilene adiacenti al deserto di Atacama, oppure, ancora, in alcune isole delle canarie, anche se il luogo più nebbioso al mondo è considerato l’isola di Terranova (Newfoundland), all’estremo orientale del Canada: nelle coste di quest’isola, con fondali poco profondi, si scontrano la corrente fredda del Labrador e la corrente calda del Golfo, generando nebbie persistenti.

È, insomma,  nel complesso, esperienza comune a molti, sul nostro pianeta. A livello fisico, la sensazione prevalente è un’umidità che penetra nelle ossa, particolarmente fastidiosa per chi soffre di reumatismi, accompagnata da quell’impressione di essere immersi dentro una sostanza difficile da identificare, sulle prime.
Durante la traversata, tuttavia, la sensazione, da fisiologica, si fa più profonda e, specialmente quando la nebbia si rivela più fitta, arriva ad intaccare la mente.
Si concretizza il dubbio sul reale. Davvero, oltre alla nebbia, c’è quello che ho sempre visto? Cosa mi garantisce che, nel frattempo, non possa essere cambiato qualcosa? I miei sensi sono davvero in grado (e sufficienti) a rendermi informazioni veritiere sulla realtà che mi circonda?
Queste e altre domande finiscono con l’affollare la mente, almeno per un momento, a chiunque abbia sperimentato quest’esperienza misteriosa ed affascinante di attraversare la nebbia, passando da un impedimento visivo pressoché totale, fino ad arrivare ad una progressiva e totale visione, resa possibile unicamente dall’avvicinarsi all’oggetto di essa.
Nel frattempo, però, la densità della nebbia è tale da mettere in discussione tutti i punti fermi, precedentemente saldissimi: la dimensione, la distanza, la posizione di oggetti, edifici, alberi ed altro, fino a prima incontrovertibile, brancolano, in quel momento, nell’incertezza più assoluta, dovuta alla più totale assenza di punti riferimento sufficientemente credibili.
Basta poco, eppure quegli attimi ci appaiono lunghissimi – quasi eterni – proprio in virtù dell’incertezza che li accompagna e li abita. Allo schiarirsi, quasi ci viene da sorridere del dubbio atroce sull’intera realtà e sulla credibilità dei nostri sensi; durante l’attraversamento, però, è inevitabile accarezzare l’ineluttabilità di tale insicurezza.
Finché non passo attraverso la nebbia, non posso frantumare l’impedimento che mi separa dall’oggetto che solitamente vedo nel mio cammino.
In fondo, non è  molto diverso quanto succede nella vita di fede, individuale e collettiva.Se persino i santi (come Madre Teresa o san Francesco d’Assisi, giusto per citare i più “famosi”) hanno dovuto attraversare la nebbia più densa del silenzio di Dio, se persino Cristo, sulla Croce, uomo fino alla fine, ha scelto, nella sua libertà, di attraversare questa nebbia, come potremmo noi riternercene immuni?
Probabilmente, tutti abbiamo sperimentato – per un periodo ed un’intensità variabili – il “silenzio di Dio”. Quello che a volte, forse semplicisticamente, chiamiamo “crisi”. Il cui secondo nome, forse è opportunità. Perché ciò che la crisi mette in discussione, è in realtà opportunità di ripensare, con nuova creatività, soluzioni che si adattino al nuovo guscio in cui, come molluschi, ci troviamo ad abitare in una nuova fase della nostra vita.
La fatica del vivere alle volte ci attanaglia, nelle forme dell’angoscia, del dubbio, della stanchezza spirituale, dell’apatia. La tentazione, allora, è ritenere che, solo perché non sentiamo le farfalle allo stomaco, ci siamo sbagliati. Tutto quello che ritenevamo esatto in precedenza, dev’essere stato un abbaglio, ma, evidentemente, lasciando parlare la tristezza, l’angoscia o l’apatia che ci circondano, risulta inesistente.
Essendo l’uomo un unicum di anima, mente e corpo, le relazioni all’interno di noi si assomigliano profondamente. Per cui, com’è vero che, pur in mezzo all’angoscia che la nebbia fitta abbia inghiottito ciò che non riusciamo a vedere più, ogni cosa è rimasta invece al proprio posto, con le stesse dimensioni, proporzioni e distanze, così, la fede non è un antidepressivo che mette a tacere i moti dell’animo, ma la Presenza di una mano che ci accompagna, anche in mezzo alla nebbia più fitta, ricordandoci tutte quelle cose che risiedono al di là della foschia e che necessitano di essere ri-trovate.
Anche  – o, forse, soprattutto – quando la foschia abita dentro di noi.    


Fonte immagine:
Pixabay

Fonti:
Il gusto della natura

 

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