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Il Dio d’Israele è Colui che si prende cura del proprio popolo e lo “chiama” dal paese d’Egitto, dov’era schiavo. Un’elezione libera ed incondizionata, in cambio della quale altro non chiede se non la fedeltà e la devozione a Lui solo: innanzitutto, cioè, chiede l’esplicito rigetto dell’idolatria, non prima di essersi presentato innanzi al popolo come il suo liberatore. Non ci sono comandamenti, prima della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, a sottolineare che la Parola di Dio, rivolta all’uomo è, innanzitutto e sempre, parola di libertà.
Solo allora, il Signore può chiedere: «Ascolta, Israele, le leggi e le norme che oggi io proclamo dinanzi a voi: imparatele e custoditele e mettetele in pratica» (Deut 5,1).
In una relazione con Dio, nata come esclusiva e particolare (diversa, cioè, da qualunque altra religione contemporanea a quella israelitica), è richiesta la fedeltà ad una promessa, che si esplicita attraverso il rispetto del nome ed il riconoscimento della signoria di Dio sul tempo (principi alla base dei primi tre comandamenti, che riguardano Dio). Inevitabile, però, declinare l’amore di Dio nella concretezza della vita quotidiana, per evitare l’ipocrisia della vita spirituale quale rifugio e fuga. Come giustamente nota l’Apostolo prediletto, «se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Interessante è notare poi come, dei sette comandamenti riguardanti la “vita sociale”, ben due riguardino il desiderio. Quasi a sottolineare, come ebbe a dire Gesù (Mc 7,20-23) che la vera radice del male comincia da dentro di noi, quando diamo seguito ad un pensiero malvagio(come, del resto, nasce innanzitutto da un desiderio – di conoscenza – il peccato originale di Adamo ed Eva).  È difficile infatti che il primo moto sia verso l’aggressività: all’inizio, nascono e crescono le motivazioni e le giustificazioni al male, nate dall’invidia e dal rancore non sopito. A fronte di questo, è possibile “anestetizzare” la coscienza e, ergendosi a giudici sui propri fratelli, valutare che sia accettabile che a una certa persona sia fatto del male, perché se lo merita. Ecco perché la prima porta da sorvegliare è quella dei nostri pensieri che, se corrotti, possono corrompere le nostre successive azioni e “inquinare” di senso negativo anche la più nobile di esse.

Il Vangelo ci porta lontano, questa volta. In Samaria. Terra distante, secondo ogni punto di vista. Terra difficile ed ostile, al sapor d’eresia. Cerniera tra i territori di Giudea e di Galilea, sede di abitanti malvisti rispetto alla religione ufficiale giudea.
Per queste terre, Gesù si trova a passare, nel suo instancabile vagare. E, mentre i discepoli sono altrove, probabilmente a cercare provviste, egli siede  invece presso un pozzo.

«Ciò che abbellisce il deserto», disse il piccolo principe, «è che nasconde un pozzo in qualche luogo…» (Il piccolo principe, cap. 24)

Ognuno ha un deserto da affrontare e, forse, il coraggio di entrarvi, deriva proprio da quest’interiore certezza che non può che risuonare nell’animo di chi ha letto Il piccolo principe.
Nell’ora più calda della giornata, una donna è attesa da uno straniero. Non sa di esserlo: l’ora è insolita per fare incontri. Chi sceglie la canicola per andare a prendere l’acqua, vuole deliberatamente evitare qualsiasi incontro con anima viva.
«Dammi da bere» è l’insolita richiesta che riceve. Non per l’ora, beninteso, né per il sole cocente. Bensì per le labbra che lo pronunciano. Labbra giudee viandanti che si rivolgono a donna della Samaria. Ciò risulta strano e, proprio per ciò, interessante. Non può fare a meno di farglielo notare: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?» (Gv 4,9).
«Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4,10)
L’acqua è utile, ma solo se si ha sete. Senza sete, anche l’acqua è inutile. Negli occhi di quella donna, il Divin Maestro deve aver scorto, dal principio, quella scintilla di chi è in cerca di qualcosa e che, per questo, lascia aperto uno spiraglio, perché qualcuno, prima o poi, possa farvi breccia.
«Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?» (Gv 4,11-12). Colta in flagrante, la donna si rintana sulla difensiva della pragmaticità. “Rabbì, non puoi giocare offensivo nella tua posizione: sei in terra straniera, hai sete e non hai con te nulla per attingere. Dipendi da me e dal mio buon cuore: se lo volessi, potrei rifarmi su di te dei torti subiti dalla tua gente. Ancora però non ci ho pensato, quindi gioca bene le tue carte” è il sottotesto delle parole della Samaritana.
Il Galileo sembra apprezzare la sfrontatezza di quella donna e rilancia, parlando più apertamente: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna»(Gv 4,13-14)
«Signore, gli disse la donna, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua» (Gv 4,15) gli risponde la donna, che, forse ha capito o forse no, ma di sicuro si sente di manifestare allo straniero di una sete fastidioso, che va oltre l’arsura provocata dalla stagione calda.
A questo punto, Gesù decide di spostare abilmente la focalizzazione sulla vita privata della samaritana, toccando un tasto dolente. La sua situazione è irregolare. Lei non cade nella trappola: ha il coraggio di ammettere, innanzitutto a se stessa, la verità. Una verità che brucia più del sole.
«Hai detto bene “non ho marito”; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero» (Gv 4,17-18). Questo dettaglio apre mille spiragli. Ecco, forse, quale sia la vera sete in atto. Ora come allora. Sete d’amore vero. Cinque mariti (più uno). Ma, ancora, la sete non è spenta. Moltiplicare i nomi non serve ad estinguere la sete. Anzi, paradossalmente, talvolta, l’amplifica persino: se la ricerca è sempre di felicità, non sempre siamo però in grado di riconoscere quale sia l’amore che è fatto per noi e, impazienti di riceverlo, rischiamo di accontentarci di qualcosa che è meno di quello che risponderebbe alle nostre esigenze più vere.
Proprio qui avviene la svolta: al percepire la profezia, nelle parole del Cristo, la samaritana vuole essere confortata nelle proprie pratiche religiose. Gesù, pur mantenendosi fedele ai propri padri, riconosce l’inadeguatezza di una pratica puramente basata sull’esteriorità (il luogo) nei confronti di Dio che, essendo puro Spirito, va oltre le suddivisioni territoriali e le convenzioni cultuali.
Il terreno, ora, è irrigato e dissodato, la zolla è pronta per ricevere il seme. Eccoci al passaggio-chiave di tutto il brano: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa»  (Gv 4, 28). Nelle intenzioni di lei, probabilmente, il pensiero principale era non-farsi-cogliere-impreparata e rassicurare il profeta giudeo che, nonostante fosse donna e samaritana, conoscesse le Scritture. Per Gesù, è il pungolo per arrivare alla rivelazione messianica su di sé: la persona di cui lei ha sentito parlare è la stessa che le sta innanzi.
Arrivano i discepoli e sono enormemente stupiti dalla scena, tanto che non riescono neppure a formulargli una domanda. Viziati dall’attualità, rischiamo di non percepire la portata straordinaria dell’evento.
Addirittura – è questo il motivo dello stupore dei suoi – ci troviamo di fronte ad un rabbì che parla con una donna, mentre, per la religione ebraica (particolarmente dell’epoca), parlare di teologia con una donna è – semplicemente – tempo sprecato.
«Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5): rivolgere la parola a qualcuno equivale ad attestarne l’esistenza. Se, con la Genesi, Dio chiama l’uomo a partecipare alla creazione divina, dando un nome alle cose, con la Samaritana, Gesù la invita a dare un nome alla fede e alla preghiera, con uno sguardo tutto nuovo. Rivoluzionario e psicologicamente sopraffino, Cristo ha ormai concluso il suo piccolo capolavoro.
La donna, accorsa per attingere acqua in orario scomodo pur di non incontrare nessuno, ora, lasciata la brocca vuota, corre al paese, per dire ad ogni anima che incontra sul suo cammino di avere incontrato un profeta, che – forse, aggiunge con la malizia del marketing più sopraffino! – potrebbe essere il Messia.
Importantissima è la nota finale, di chi  ha creduto, dopo aver incontrato Gesù, a seguito dell’invito della donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (Gv 4,42). Potremmo scorgere un velo d’ingratitudine in questa precisazione, tuttavia è inevitabile ricordarcene, di fronte alla fede in Gesù. Come la Samaritana e come Giovanni Battista, il ruolo del discepolo si risolve nel portare a Cristo e lasciare che l’incontro si compia. Oltre, non solo non ci è richiesto, ma rischierebbe, addirittura, di essere troppo!

 

(cfr. Letture festive ambrosiane nella II Domenica di Quaresima)

Fonte immagine: abbazia di Fossanova

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