Hanno un potere magico le parole. Uomini e donne, nel corso dei secoli, si sono lasciati uccidere per delle parole: «Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola – scriveva E. Dickinson – A volte ne scrivo una, la guardo fino a quando non comincia a splendere». Per una bizzarra coincidenza del calendario, quest’anno la Quaresima è iniziata nel giorno degli innamorati, il 14 febbraio. La Pasqua cristiana si celebrerà il 1 aprile, la giornata del “pesce di aprile”, famosa per gli scherzi. In mezzo, a metà della Quaresima, vivremo il nostro appuntamento con le urne: il popolo italiano sarà chiamato a votare per esprimere la sua preferenza. Lo farà in base alle parole – che vantano pretesa di vedere tributato loro il titolo onorifico di “promesse” – che sentirà pronunciare durante i comizi, le trasmissioni televisive, il tam-tam ininterrotto del quotidiano.
La Quaresima, nella tradizione cristiana, è un periodo di preparazione alla Pasqua. Sono poche, scarne, mezze-svestite le parole che inaugurano il tempo di quaresima. Con un pugno di cenere sulla testa, l’unica parola è una parola di bassa-quota: “Ricordati, uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai”. Tutt’altro che una maledizione, è la più sincera delle annunciazioni: piedi per terra, testa attaccata al collo, unica ambizione quella di riconoscersi mortali, di passaggio. La Pasqua, quest’anno, correrà il rischio di venire etichettata come un pesce-d’aprile: “Le solite cose. Diranno che è risorto: è il solito scherzetto per riempire le chiese”. Mi affascina questa coincidenza, dove il lato pagano del calendario sembra fare a pugni con il significato liturgico della cristianità: un corpo-a-corpo, una sfida ad armi pari, una sorta di duello al ritmo mistico delle parole. Tra questi due estremi, quest’anno accadrà l’appuntamento con le urne: al popolo italiano viene chiesto – in teoria – di scegliere da chi vorrà essere rappresentato al governo. La cosa buffa è che tutti e due gli appuntamenti, politici e liturgici, poggiano la loro credibilità nell’esilità della parola, pronunciata, promessa. È un’arte delicata, la parola: “Andateci piano con le belle parole – è scritto a mano su un muro di Trento -, perché poi viene il momento di dimostrarle”. La Pasqua, per il popolo cristiano, è l’evidenza di una parola fattasi storia, di una promessa mantenuta: duemila anni di graticole fumanti e di derisioni intellettuali non sono bastate a fermare l’urto impetuoso di quella parola-di-vita. Ancora parla, è li che interroga e infastidisce, rabbuia e consola: è parola non indifferente.
Sono giorni, questi, abitati da fiumi di parole: alle parole sembra appesa la sorte e la salvezza di un popolo. Giornate di grande fatica intellettuale: si coglie al volo che certe parole sono stressate, che certi concetti sono stati così drogati da apparire stupefacenti, che il significato che si tributa alle parole è quasi pari allo zero. Si parla non perché si abbia qualcosa da dire ma solo per il fatto che l’avversario ha parlato, si esagera per non apparire inferiori, si prova piacere ad illudere pur avendo piena coscienza di farlo. Sono forze strane le parole: rimani senza quando sei troppo felice, rimani a corto anche quando sei troppo triste. Ti vengono in aiuto solo quando servono a poco più di nulla. Fino ad annunciarsi a casa tua come presenze fastidiose e nullafacenti. Eppure la parola è e resterà la miccia più potente che il mondo abbia mai conosciuto prima: quando il fuoco è pronto, basterà una miccia per accenderlo e riscaldare. O bruciare tutto.
La Quaresima cristiana m’affascina. Con parole ridotte all’osso – “Ricordati che non sei immortale” – e strumentazioni d’altri tempi, acqua e cenere, riesce a farti dono di domande più che di promesse, senza nascondere la fatica della storia. Personalmente, quando la fortuna m’assiste, amo af-fidarmi a coloro che sanno pesare con cura le parole da non pronunciare. Mi trasmettono sicurezza.
(da Il Mattino di Padova, 18 febbraio 2018)