Israele, potremmo dire da sempre, tende ad allontanarsi da Dio. Ecco la ragione dei continui richiami ad avere fede nell’Unico Dio che salva, abbandonando gli idoli, così come le seduzioni del potere e della ricchezza.
«Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio d’Israele, salvatore» (Is 45,15) è l’invocazione che affiora alle labbra, ed è la prima professione di fede in un Dio che non si uniforma al nostro pensiero di Lui e ricorda molto l’esperienza di Elia, che, alla ricerca di Dio, non lo trovò nel «vento impetuoso e gagliardo», né nel terremoto che seguì e neppure nel fuoco, bensì gli si rivelò presente nel «mormorio di un vento leggero» (1Re 19, 11-13). Come, del resto ebbe modo di rassicurare Samuele: «l’uomo guarda all’apparenza, ma il Signore guarda il cuore». È proprio in questa diversità, in certo modo “strutturale”, che risiede la difficoltà di trovare Dio, quando appare “nascosto”, ai nostri occhi.
Anche Gesù si nasconde da Maria e Giuseppe, allontanandosi alla loro vista. Per tre giorni. Prefigurazione di quei Tre Giorni che cambiarono il corso della storia dell’Umanità.
Come Giona che visse tre giorni nel ventre del grande pesce (Gion 2,1) e come il Figlio dell’Uomo che, dopo essere stato innalzato sulla Croce, entrerà per tre giorni nelle viscere della terra, prima di risorgere, anche il Messia dodicenne si cela, mentre si palesa. C’è infatti come un “movimento-doppio”: mentre è nascosto e “introvabile” agli occhi dei genitori, si trova al Tempio, a discutere coi dottori della Legge, meravigliandoli per la Sapienza, che Gli viene dall’alto, o meglio, dall’Altissimo. Alla domanda su quando Gesù comprenda il proprio ruolo, forse, da questo brano, viene da pensare che proprio in questo momento saliente della sua esistenza risieda la piena consapevolezza di sé. Risulta evidente, infatti, la piena volontà di adesione a quella del Padre.
C’è, inoltre, un po’ da sfatare un “mito”, sul nascere. Gesù, a quell’epoca, non è “piccolo”. Lo è ai nostri occhi, che siamo abituati a vedere, a dodici anni, il pargolo “scorrazzato” in ogni dove (palestra, piscina, corso di inglese, dentista), trasformandoci in “globetrotter” a loro disposizione. Nulla a che vedere con lo spettacolo di frotte di bambini, intorno ai 5 anni (quando non meno!) che si recano – da soli! – a scuola, solitari od in piccoli gruppi, facendo lo slalom fra merci, veicoli ed animali, in Terra Santa. Nel diritto ebraico, del resto,ancora oggi, i ragazzi sono considerati adulti dall’età di 13 anni e un giorno; nell’antichità, a 12 anni, il giovane ebreo partecipava alla cerimonia di Bar Mirzvah, che ne sanciva l’ingresso nella comunità adulta, a tutti gli effetti.
Trovandosi pur sempre, però, sotto la tutela della Sacra Famiglia, è chiaro, da una parte, che Maria e Giuseppe se ne sentissero responsabili e che, d’altro canto, dopo 12 anni, non è mai semplice cambiare “di colpo” le proprie abitudini. Comprensibile dunque, l’angoscia ed il turbamento, di fronte a quella certezza: ce lo siamo perso, non sappiamo più dove sia! Avere il compito di crescere ed educare il Dio fattosi uomo e perderlo di vista sembra quasi un controsenso. Eppure, è quanto di più facile possa accadere nella sequela: Messa, vita sacramentale, routine da etichetta d.o.c., eppure… stiamo seguendo un rito, ma non Gesù, stiamo compiendo delle azioni, ma perdiamo di vista per Chi, ascoltiamo delle Parole, ma dimentichiamo a Chi appartengano. A volte, proprio chi vive accanto a Cristo, rischia di dimenticarsi di guardare a Lui!
Nell’adolescente Gesù, rivediamo i nostri adolescenti.Un attimo prima, erano solo bimbi paffutelli, teneri e diligenti. ora sono scontrosi, arroganti, indipendenti. Ed anche quando non si arriva ad un atteggiamento esplicitamente oppositivo, rimane comunque la netta sensazione di “averlo perso”. Fino a poco fa, era un bimbo adorabile; nel giro di pochi mesi, si trasforma in un perfetto sconosciuto, il cui mondo ci sembra estraneo ed impenetrabile.
Le opzioni sono due: o rimpiangere il “tempo andato”, oppure prendere atto del cambiamento e rendersi conto che la situazione è cambiata, che dodici anni non sono tre e che, necessariamente, l’approccio deve essere diverso (che non significa, però, “concedere tutto”). Affrontare un figlio adolescente rappresenta sempre una sfida, perché ci chiama a misurarci con una visione del mondo e ci mette in discussione. A volte, proprio un apparente scontro si rivela, però, la modalità privilegiata per ottenere un rapporto più profondo e più vero di verità nella carità. È per questo che non dobbiamo avere paura di offrire Cristo, “tutto intero”, ai ragazzi, perché, come ebbe modo di dire san giovanni Paolo II, nel 2000, rivolgendosi ai giovani:
«È Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare. È Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di seguire un ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna».
Nelle parole di Maria («Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo») si evidenzia il turbamento e l’incomprensione di Maria (e di Giuseppe), che l’evangelista non ha timore di affermare esplicitamente: ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Del resto, la risposta di Gesù («Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?») è quanto meno indelicata nei confronti di Giuseppe. Sentirsi “mettere in secondo piano”, a fronte della Divina Paternità dev’essere stata sicuramente una situazione non facile da gestire, nonostante egli potesse essersi, in qualche modo, preparato a tale evenienza.
Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso: sembra quasi stonato un simile “lieto fine” dopo una situazione con la tensione alle stelle, come può immaginare solo chi ha vissuto in prima persona cosa significhi, a livello emotivo, perdere un figlio in un luogo affollato. In realtà, solo apparentemente, “tutto torna come prima”. Questa frase segnala infatti la necessaria gradualità per imparare che siamo noi ad essere chiamati a seguire Gesù in cammino e non Lui a seguire noi e i nostri schemi. Siamo noi a dover adattare il nostro passo al Suo. Gesù però capisce che non è facile non tanto impararlo, ma, piuttosto, vivere questo e, allora, acconsente Lui a rallentare un po’ il passo, affinché noi non perdiamo il ritmo del cammino.
(Rif: letture festive ambrosiane della Festa della sacra Famiglia)
Fonte immagine: freebiblieimages