Entrambi all’addiaccio. Lui, dopo aver perso il lavoro, aveva fatto della sua auto la dimora nella quale rincasare. Loro, due adolescenti di Verona e dintorni, avevano fatto della noia il loro numero civico. Anche loro, dunque, stavano nella condizione precaria di chi è senza più un tetto sotto al quale coltivare un senso da dare alle proprie giornate, un significato che colori la giovinezza. «La noia è un male che non deve essere preso alla leggera – scriveva A. Schopenauer -. Può portare alla fine alla vera disperazione. L’autorità pubblica prende contro di essa delle precauzioni, come contro altre calamità universali». La noia: subito dopo ecco apparire la nausea. E l’esistenza diventa cosa superflua, la vita degli altri un giocattolo, fino a farla apparire come una situazione normale: «Era solo uno scherzo, non volevamo ammazzarlo»: sono le parole-di-difesa dei due protagonisti della carneficina di Verona, ai danni di Ahamed Fdil, un signore del Marocco rimasto senza lavoro. Senza più un tetto, una briciola di dignità.
Di noia si può morire: “Questo film è di una noia mortale. Mi sto annoiando da morire. Che noia!” Per noia si può anche uccidere qualcuno, meglio uno che abbia le connotazioni del diverso-da-noi: per il colore della pelle, per situazione fisica, per un nonnulla suggerito dalla noia stessa: “Volevamo provare una forte emozione. Per vedere che effetto fa un uomo che brucia vivo. Mica pensavamo morisse: pensavamo poi tornasse vivo, come nei videogiochi”. Giustificazioni che fanno sorridere chi non ha mai bazzicato dentro i faldoni di un processo, nelle gattabuie annoiate di una galera, dentro l’animo nauseato di chi non è più capace di attribuire un significato al suo vivere quotidiano. È la noia che, in un battibaleno, diventa nausea: «Ho voglia di vomitare, e d’un tratto ci siamo: ecco la Nausea» scriveva Sartre nel suo romanzo “La nausea”, appunto. Quando l’esistenza diventa una cosa superflua, la nausea e la noia s’annunciano come una situazione normale. “Mistica” è termine sacro, appartiene alla semantica della contemplazione: è la strada attraverso la quale l’anima può raggiungere la sua massima perfezione. È termine ecumenico, non è proprietà privata della popolazione cristiana: il divino, a qualunque cielo appartenga, è allenamento a rivolgere lo sguardo all’insù, oltre che all’ingiù, pancia a terra. A sfidare la punta del proprio naso, la recinzione della propria abitazione. Essendo affare proprio di un’anima, anche la noia ha un sua mistica, forse una mistica-del-nulla, dove proprio il nulla diventa il punto infiammato di storie in fase di annoiamento.
Chiedere che questi due ragazzi finiscano dentro una patria-galera è cosa scontata: di fronte all’atroce, la prima reazione è quella di dire che “Non è cosa che ci riguarda. Mica siamo come quei due che bruciano il barbone. Sono matti, devono stare lontani dai nostri figli”. La noia, nel frattempo, ringrazia: non esiste cosa più mortifera di nascondere sotto il tappeto la sporcizia, di accatastare nel granaio l’inutile, di posizionare nei sottoscala le cose consumatesi nel tempo. È la vittoria della noia sullo stupore, della nausea sull’innamoramento. È l’epigrafe di un’anima: non si soffre manco più la noia, ma si decide di viverla finendo per non accorgersi più di essa: «Provo la noia – confessa Cecilia a Dino in un testo di Alberto Moravia – “Che cos’è la noia?” Come faccio a spiegartelo? La noia è la noia». Avere così tanto tempo a disposizione per fare qualcosa d’immenso e avere così poche idee su che cosa sia l’immenso che ci attende: forse è questa l’identità della noia. “Sono così noiosi questi ragazzi” avrà pensato qualcuno, di fronte a qualche gradinata, sulla piazza. “Voi non ci siete mai quando siamo divertenti” potrebbe rispondere qualcuno di loro. Per i primi e per i secondi, pare una cosa assai irritante la noia. Così noiosa che finisce per annoiare da morire.
(da Il Mattino di Padova, 14 gennaio 2018)