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Quest’anno liturgico che, per gli ambrosiani, sembra essere partito a rilento per via delle 7 domeniche prima del Natale, sembra ora invece incalzare, dal momento che la “domenica dopo l’Epifania”, festa del Battesimo di Gesù, cade proprio il giorno seguente, rispetto ad essa.
Nel mezzo, quei giorni frenetici e suggestivi nei quali, tra nostalgia, bilanci e buoni propositi, buttato un occhio indietro all’anno appena trascorso, ci immergiamo, con nuova speranza, nel nuovo anno che ci è donato.
Così come i magi che, dopo aver adorato il bambino, sono dovuti ritornare alle proprie occupazioni, nelle terre lontane dalle quali erano venuti, anche noi siamo ora chiamati alla sempre nuova sfida della quotidianità. A dirla tutta, specie dopo incontri od esperienze significative, si tratta di quella più impegnativa: il rischio, sempre in agguato, è quello di trascorrere la ferialità, annegando nella banalità, perdendo per strada la Grazia del momento particolare appena trascorso e vissuto con intensità.

«O è natale tutti i giorni, o non è Natale mai» cantavano Luca Carboni e Jovanotti, cover del brano “More than Words”, degli Extreme. Queste parole credo che ben incarnino le giustificate perplessità dei più scettici, nei confronti del Natale. Non c’è bisogno di essere Scrooge per poter pensare che ci possa essere un giorno dell’anno in cui “essere più buoni” sia stupido. Se davvero fosse solo quello il senso del Natale, sì, probabilmente, dovremmo concordare che non si tratterebbe altro che di un’inutile perdita di tempo, probabilmente anche un po’ ipocrita, nel tentativo di placare i rimorsi di coscienza, fare un po’ di beneficenza e rivedere i parenti (anche quelli che manderemmo cordialmente a quel paese).
Al contrario, però nel suo significato più pieno, di ri-cor-do (riportare al cuore) della stupenda realtà di un Dio che, nella libertà, sceglie di farsi piccolo, incarnandosi nell’uomo, facendosi bimbo che cresce nella pancia della mamma Maria e che nasce in una mangiatoia, così da accogliere, pienamente, in sé il nostro essere, pur senza rinunciare al proprio, questa festa non è più una sciocchezza. È il riannodarsi dell’antica promessa abramitica, nel rinnovarsi di un nuovo patto che, da 2018 anni, ci protende verso l’eternità dell’Amore di Dio.
Un Dio che, stanco del nostro rifiuto a diventare come Lui, ha deciso di mettersi nei nostri panni, per poterci prendere per mano e mostrarci la Via per il Cielo: lui era l’Uno e l’Unico, l’Indivisibile, l’Onnipotente, il Creatore, innominabile, invisibile ed intangibile, si è fatto visbile ai nostri occhi, perché potessimo fare esperienza dell’identità di Dio e dare nome e volto al Padre (“chi vede me, vede il Padre”, Gv 12, 45).
Alla luce di ogni altra religione, questo fatto è qualcosa di strabiliante (nessun altro monoteismo può accettare che Dio scelga liberamente di farsi uomo, prendendo un corpo e limitando la propria infinitezza): ce lo rende “abituale” unicamente il fatto che, dopo duemila anni, i nostri occhi, come accecati da troppa luce, non riescono più a comprende la sfolgorante novità di questa notizia: “Dio si è fatto come noi, per farci come Lui”.
«Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi» scrive, a buon titolo, Marcel Proust. Cambiano le tecnologie, cambiano le mete, aumenta la possibilità di muoversi e di scoprire nuove cose.
Ne sa qualcosa, e, forse, ne sa ancora di più proprio ora che ha effettuato l’Ultimo Viaggio, John Young, pioniere delle conquiste spaziali, l’americano che volò nello spazio con le missioni Gemini e Apollo e che ebbe una lunghissima carriera astronautica (42 anni di servizio). Apparteneva a quella stretta cerchia di uomini che ci fecero sognare, rendendo concreto il sogno dell’uomo di “accorciare le distanze” ed esplorare l’Universo. Consapevoli che, almeno stando alle ultime teorie scientifiche, l’Universo è in continua espansione, forse tale sogno continuerà a rimanere tale: una mera ipotesi, di cui baloccarsi nelle notte stellate, tralasciando il non trascurabile dettaglio delle distanze siderali che ci separano dai corpi celesti. Eppure, guardare il mondo da una prospettiva diversa non può che dotare di uno sguardo nuovo chi ha il coraggio e l’audacia di compiere un viaggio spaziale, una volta tornato sulla Terra: così come i Magi che, dopo aver veduto il Bambino, tornano alle proprie faccende, ma “per un’altra strada”.
Così, mentre pensiamo a queste straordinarie imprese, quaggiù, a ciascuno di noi resta il compito di industriarci, tra i mille impegni, di rinnovare il nostro sguardo sulla realtà. Si dice che Natale sia festa veramente solo per i bambini, poi non si riesce più a viverla allo stesso modo. Questo è certamente in parte vero. In quanto nato da poco, è connaturale, nel bambino, la tendenza a stupirsi, poiché, per lui, è un susseguirsi di “prime volte” che gli fanno sgranare gli occhi dallo stupore. Il Natale ci invita proprio a questo rinnovamento dello sguardo, che può farci vedere “nuove tutte le cose” (Ap 21, 5). Solo così, potremo vedere i germogli di bene, presenti ai lati delle nostre strade feriali, che rischiamo di lasciar passare inosservati, perché proiettati unicamente nelle nostre facezie quotidiane, che preferiamo condire di lamentele, piuttosto che di “grazie”.

 

Fonte immagine: Stream.org

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