La localizzazione era perfetta. Le coordinate furono rispettate al millimetro: «E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele» (Mic 5,1). Nacque in quell’anfratto di terra così fragile d’essere presa per i fondelli dai buontemponi: che il più-piccolo sia capace di ospitare il più-grande, è materia di stordimento per i cervelli fini della Galilea. Dio, se davvero doveva un giorno calarsi giù dalle cime celesti, doveva per forza stordire con un’invasione di evidenza: il mondo, da che mondo è mondo, approssima per difetto. Dio, dal canto suo, approssima per eccesso. A Betlemme fu il troppo, l’inatteso, l’incalcolabile. A Gerusalemme, in cima al Golgota, sarà l’imperdonabile, lo sfigurato, il trasfigurato: in Lui non si dà amore senza esagerazione. Quella di Betlemme: troppo in basso per essere riconosciuto Dio. I verbi, quelli annotati dagli evangelisti, sono verbi-viandanti: allacciarsi le scarpe, incamminarsi, bussare, piantare la tenda. Verbi manovali per “mettere-su-casa”: domestici, familiari, suoni di casa e bottega. L’uomo, per troppa lontananza, rischia il collasso della disperazione: per troppa vicinanza rischia l’accecamento. Troppo-vicino passò loro Dio, quasi lo accusarono d’aver banalizzato il Cielo: poteva calarsi così in basso Colui che era così in alto da comandare di non farsi manco un’immagine devota della sua faccia?
S’abbassò fino a scandalizzare. Visto che in basso «non c’era posto per loro nell’albergo», invece che tornarsene da dov’era partito, scelse una stalla – l’odore del letame, il mugugnare delle bestie, l’apprensione di casa sua – come punto di appoggio per sollevare il mondo. Dal basso del basso: «La tristezza del discendere è il prezzo pattuito della gioia del salire» (G. Papini). Fu l’extrema-ratio di Betlemme: forse s’aspettava dell’altro da gente che giurava d’attenderlo con metafore di bugie: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio» (Sal 42,1). A parole era così: “Stiamo aspettando Dio, dicono sia in arrivo” dicevano tutti. Quando passò in mezzo a loro, nascosto nella pancia gravida di una donna vergine, mica lo riconobbero: erano indaffarati ad attendere Dio. Lui, invece, s’accorse di loro, li riconobbe tutti, uno per uno: era gente che parlava, straparlava, inanellava una serie di cazzate infinite. Per poi, perdutisi l’aggancio col Dio-mendicante, fissare il vuoto: in silenzio, lo sguardo perso, la mente chissà dove. Nel volto rimase traccia di quella tristezza che, nei Vangeli, è ammissione di stanchezza. Il primo Natale della storia – quello che il mondo intero attendeva da millenni – fu la storia più triste di tutte quelle narrate fino a quel momento: Cristo bussò alla porta, loro dissero ch’era tutto pieno.
Che avevano tutti la pancia-piena: non c’era più posto per Lui in mezzo ai loro appetiti umani. Fu per questo che Dio, costretto, nacque dentro una stalla: l’alternativa sarebbe stata quella di non nascere affatto, di ritornarsene da dov’era venuto. Quando s’accorsero, perché s’accorsero, che era davvero Lui, si diedero tutti da fare, si misero in moto per recuperare il tempo perduto: il carro del vincitore è sempre il più largo. Fu questo il primo Natale della storia: d’una tristezza infinita perché s’accorsero d’aver perduto l’appuntamento con la storia. Il loro recupero fu cosa peggiore dello strappo prodotto: vestirono di finta gioia, come la carta-da-parati della nonna, la loro sbadataggine. S’inventarono le luci di Natale, gli angeli di marzapane, le greppie damascate: rimarranno tentativi-di-scuse per la sbadataggine d’essersi perduti il passaggio di Dio. Che ci riprova: «La luce splende nelle tenebre». Nonostante l’uomo: «Ma le tenebre non l’hanno accolta» (Gv 1,5). In-una-stalla è il complemento-di-luogo più pazzo: che nessuno pensi d’essere così lurido da scoraggiare Dio a rivestirlo di luce.
(da Il Mattino di Padova, 24 dicembre 2017)
(immagine tratta da www.lasettimanalivorno.it)