La mia storia, finora, è nascosta nel volto di tre Papi. Sono nato sotto il pontificato di Giovanni Paolo II: il suo rannicchiarsi all’ombra di Maria è stato per me invito a coltivare sin da piccolo la devozione alla Donna di Nazareth. Benedetto XVI è stato per me maestro nella fede, nella teologia: la gentilezza del suo pensiero, unita a quel tocco di pittura che gli è congenito, sono stati invito e compagnia nella mia personale ricerca del volto di Dio. Francesco è il Papa che con i suoi gesti ama rendere attori le persone che si trova davanti. Temo che il buon-Dio, quand’era a spasso per la Galilea, facesse l’identica cosa: l’uomo, qualsiasi uomo, protagonista della sua storia con Dio.
Apparso alla finestra in una sera di primavera, il suo esordio è stato per me rapimento: Buona-sera! Non era politicamente-corretto come saluto-di-Papa: era profondamente umano, però. Mi colpì, mi convinse, fu motivo di un’immediata simpatia per quell’uomo arrivato dai bordi della terra, a testimoniarmi il bordo del Mistero. In galera – il nostro punto d’osservazione sul mondo – pronunciare il suo nome è aprire le porte alla stravaganza di Dio. Le sue accelerazioni o sono carezze di madre, o sono annunci di guerra. Indifferenti, mai.
Nelle prigioni abitano uomini che hanno fatto guerra, provocato disastri, messo in allarme il mondo. Gente attrezzata a tutto. Quasi-tutto: «Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga, da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Bisogna fidarsi di Dio» disse Francesco in quell’intervista a padre Antonio. Fu un vero e proprio agguato, il colpo di fulmine che non t’aspettavi. Certezza-dogmatica: la carne è l’unico dogma che i poveri sanno a memoria. Dunque, hanno capito che il Papa li amava per com’erano: rotti, feriti, slabbrati. Fatti-così.
È sbocciata a bordo strada, come un fiore selvatico, la storia d’affetto tra Francesco e i nostri carcerati. Una sera, la domenica del Giubileo dei Carcerati, li ha invitati a casa: la porta aperta è sempre quella più sicura. Li ho visti lacrimare, faticare a reggersi in piedi, pregare, sorridere. Abbracciarsi-forte: Gesù, in Galilea, iniziò così la storia più ambiziosa. Da quel giorno nulla è più stato com’era prima. Per loro, anche per me: quello sguardo-di-grazia sulla mia miseria è stato lo sguardo di un Dio-affamato del mio riscatto.
A luglio, un mattina, uno di loro mi fissa: “Quando sei così, stai organizzando qualcosa”. Sorrido, gli confido questo lavoro sul Padre-nostro, gli svelo qualche storia. Lui – è la sfacciataggine bella del povero – non ha dubbi: “Se glielo racconti al Papa, parteciperà anche lui”. Rido: “Esagerato!” Scordavo che anche Cristo esagerava: non conosceva amore senza eccessi. Finita la messa, scrivo la lettera: la Invio. Quando il martedì il Papa telefona, quello che capisco è che i poveracci sentono Dio mille volte meglio di me. È destino che siano loro ad evangelizzarmi in questi anni di sacerdozio.
Quando ci siamo raccontati il Padre-nostro, non potevo tacere quella sera di marzo 2013: a casa, Francesco era un nome che già si pronunciava con leggiadria. È il nome di nostro papà. Da quella sera è diventato anche il nome del nostro Papa. Dopo Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Dio si chiamava Francesco: era un nome di-casa.
Πάτερ ἡμῶν ὁ ἐν τοῖς οὐρανοῖς
ἁγιασθήτω τὸ ὄνομά σου
ἐλθέτω ἡ βασιλεία σου
γενηθήτω τὸ θέλημά σου,ὡς ἐν οὐρανῷ καὶ ἐπὶ τῆς γῆς
τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον δὸς ἡμῖν σήμερον
καὶ ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφειλήματα ἡμῶν,ὡς καὶ ἡμεῖς ἀφίεμεν τοῖς ὀφειλέταις ἡμῶν
καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν,
ἀλλὰ ῥῦσαι ἡμᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ
ἀμήν.
Gli ho baciato la mano: non è un gesto che mi appartiene, però in quell’istante mi è nato spontaneo. Era il gesto più nobile: perché ci sono mani che, senza far rumore, fanno scivolare sotto la pelle fiumi di misericordia, scorci di bontà, sprazzi di bel-tempo. Avevo avvertito, conversando assieme a Lui, quello che scrisse don Primo Mazzolari: «Il miracolo è l’incontro della sua carità infinita con l’infinita mia povertà che si inginocchia». Dio nella mia povertà: è pazzesco.
E, mentre conversavo, ho ripassato le tante storie che han reso fantastico quest’avventura nel Padre-nostro. Sopratutto ho ripensato a Silvia, Erri, Mariagrazia, Simone, Tamara. Carlo, Flavio, Umberto, Pif: la loro non-credenza, la loro fede-difficile sono state la traduzione letterale della certezza di Francesco: “Ci sono dei non credenti che sono più vicini a Dio di tanti credenti”. Punto, a capo.
Assieme abbiamo fatto una scoperta. Pregare il Padre-nostro, a volte è tanta-fatica: da soli, qualcuno non lo prega. Pregarlo recitando un pezzettino ciascuno, questa è la Chiesa che ho sempre sognato: una storia di voci poggiate l’una all’altra. A farsi coraggio, compagnia.
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