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“[Adamo] Dove sei?” (Genesi 3,9)
Com’è umano, questo Dio-Creatore, che passeggia in mezzo al giardino dell’Eden per godersi la brezza del giorno e la compagnia dell’uomo. La sua creatura, opera delle sue dita, è qualcuno con cui egli desidera condividere il tempo e i passi, da amico ad amico.
Ma dov’è Adamo? Non si vede. È corso a nascondersi, tremante di paura. L’umanità, racchiusa nei primi due uomini, ha aperto gli occhi sulla propria piccolezza, rappresentata da una nudità che fa sentire indifesi. Niente più faccia a faccia con Dio, niente più camminate insieme. Niente più incrocio di sguardi, occhi negli occhi che si scrutano senza timore, sorrisi d’amicizia reciproca.
Niente più Eden. Non per punizione, ma per aiuto. L’uomo non può più stare al cospetto di qualcuno che sente come un estraneo, il cui solo passo atterrisce e induce a cercare un riparo.
Ne ebbe nostalgia, Dio, fin da subito. Né il resto del creato né gli angeli potevano supplire a quella mancanza di sguardi.
E allora promise. Più e più volte.

Con Abramo, sotto un cielo di stelle. Con Mosè, tra le minute foglie di un roveto ardente. Con Davide, nella città di Gerusalemme.
L’uomo infrangeva il patto, la Misericordia ne riassemblava i cocci. Instancabile, paziente oltre ogni logica di comune buon senso. Il motore era uno solo: l’amore, la voglia di tornare a mettersi occhi negli occhi, il desiderio di amare senza far tremare l’altro di paura.
“Il tuo volto, Signore, io cerco.” (Salmi, 26,8)
Ogni tanto le due nostalgie si incontravano a metà strada. Quella del Padre e quella degli uomini ed insieme composero preghiere, salmi ed inni di lode. Una prometteva e consigliava, regalava regole di pace, l’altra scandiva il tempo in anni, lustri e secoli e vedeva il mondo intorno a sé cambiare ancora e ancora, chiedendosi quando il momento tanto atteso sarebbe arrivato.

Verrò, ma non come un re temibile, dinanzi al quale non ci si può che prostrare con il cuore che trema di terrore reverenziale.
Verrò, come un bambino. Piccolo, indifeso, adagiato in una mangiatoia, con la paglia che gli solletica il capo e le guance paffute. Come un infante che sorride ed agita le mani, perché mai più abbiate paura di me.
Verrò di notte, sotto un cielo di stelle. Rifiutato dai più, mi verrà dato riparo dove riposano animali e pastori, perché anche il più povero e reietto tra voi possa avvicinarsi a me con fiducia.
Verrò, come un anonimo carpentiere in una fumosa bottega di Nazareth. Stenderò le mani al legno, trasformandolo in utensili per la vita d’ogni giorno, perché la vostra vita di ogni giorno m’è cara come il più prezioso dei tesori.
Verrò, come un Rabbi di Galilea. E stenderò le mani ad altro legno, trasformandolo in segno per la vita eterna, perché vi amo al punto da morire per voi.

“Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio e lo chiamerà Emmanuele.” (Isaia, 7,14)
Immanu-El, Dio-con-noi.
Un soprannome, un titolo onorifico? Molto più di questo.
Un vero e proprio programma, una determinazione d’essenza, uno stato di esistenza.
Per porre fine alla paura dell’uomo Dio non dà qualcosa, ma qualcuno. Dà se stesso, senza riserve. Quella stessa umanità piccola e fragile che aveva atterrito Adamo, ora viene esaltata e posta a modello.
L’Emmanuele è il riscatto di Adamo, è l’abbraccio dato ad ogni uomo e donna che cammina su questa terra per dire loro “tu per me sei importante ed io sono qui, ora, solo per dirti che ti amo: non avere più paura di me.” Siamo piccoli, siamo imperfetti, siamo testardi o pigri: siamo amati.
L’Emmanuele colma la distanza tra uomo e Dio. E’ Dio che torna a guardare negli occhi gli uomini, faccia a faccia. Che torna a camminare con loro, alla brezza del giorno e sul far della sera. Per i sentieri di Galilea, per le vie di Gerusalemme, lungo la strada di Emmaus.
E, siccome l’amore rende eterne tutte le cose, quello sguardo di ieri, nato a Betlemme di Giudea, si cristallizza nell’oggi e per sempre per ognuno di noi, nessuno escluso.
“Non abbiate paura. Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!” (Giovanni Paolo II)

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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