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C’era un tempo – e non è una favola, ma storia sacra che troviamo nel secondo libro dei Re – il re di Moab che si era dichiarato vassallo del re d’Israele, ma, in seguito si rifiutò di inviare il tributo di vassallaggio. Israele non sopporta questa insubordinazione e muove guerra verso Moab.
Su questo sfondo, prendono forma le immagini della prima lettura in questa Domenica del “tempo di attesa” del Natale, nel rito ambrosiano.
Spaventati dall’eventualità di una guerra, gli abitanti di Moab fuggono, disperdendosi come uccellini caduti dal nido, impauriti e che non sanno che fare, dove andare: così, fuggono in ogni parte, come schegge impazzite.
Il Profeta Isaia intercede quindi  presso Dio invocando un suo intervento, per ricomporre ad unità quel popolo, tanto amato. Chiede a Dio di non abbandonare quel popolo. Sia pur fuggiaschi, ritrovino accoglienza nel grembo di Dio.

Sicuramente Gesù ha ben in mente questo grido del Profeta, quando, prima di entrare in Gerusalemme, la città santa, piange su di essa: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali; e voi non avete voluto!” (Mt 23,37).
Forse sono troppo presi, da buoni osservanti della Legge, a guardare indietro, piuttosto che aprirsi ad accogliere la novità.

Esulta grandemente figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino,
un puledro figlio d’asina.
Farà sparire i carri da Efraim
e i cavalli da Gerusalemme,
l’arco di guerra sarà spezzato,
annunzierà la pace alle genti,
il suo dominio sarà da mare a mare
e dal fiume ai confini della terra. (Zc 9,9 – 10)

La conoscono la Parola, ma non riescono a riconoscere il “Re” tanto atteso.
Eppure Cristo sceglie proprio quella cavalcatura (un’umile asina) piuttosto che un sontuoso destriero. Questo per un duplice motivo: innanzitutto, per rendersi riconoscibile a chi era assiduo frequentatore delle Scritture, in secondo luogo, per manifestarsi non come conquistatore, ma come il Re di un Regno-altro, diverso. È infatti venuto sulla Terra a ribaltare le regole dal basso, per portare in palmo di mano i più deboli ed umili, i sopraffatti, i poveri-cristi.
I farisei non accolgono questo Messia, perché non risponde alle loro aspettative, perché non viene a far sì che Israele emerga, spadroneggiando sugli altri popoli per rovesciare le loro potenze.
Si dovrà attendere diversi secoli per vedere il cristianesimo conquistare l’Impero Romano fintantoché, grazie al sangue dei martiri, diventerà addirittura religione dell’Impero.
In realtà, anche noi siamo un po’ così. Quando siamo nella prova, ci chiediamo dove sia Dio o perché permetta il male. Non accettiamo un Dio che si faccia debole, per essere nostro compagno di viaggio. Vorremmo i “fuochi d’artificio”: una vittoria sul Male ma come vogliamo noi, in stile hollywoodiano, magari. Anche noi, come Giacomo e Giovanni, vorremmo dire: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9,54).
Gerusalemme, città santa, casa di tutti i credenti, è incapace di accogliere il Cristo, è incapace di farsi casa accogliente.
Qualcuno lo riconosce, soprattutto i bambini. Qualcuno prende rami di ulivo, palme, stendono i mantelli. Qualcuno riesce a riconoscere in quel “re umile” il Messia. Anche se, qualche giorno dopo si fanno complici, della morte tragica del Cristo.
Si erano forse già stancati di un Messia privo di vanagloria?
“Sentirsi a casa” è sinonimo di libera confidenza. È il posto in cui ci togliamo le scarpe ed il soprabito e ci mettiamo comodi. Dove non abbiamo paura di mostrare la nostra umanità e il nostro lato “tenero”, perché abbiamo la certezza di non essere, per questo, surclassati.
Non è un caso, probabilmente, che, dopo l’ingresso in Gerusalemme, si parla di dirigersi verso Betania. Sappiamo bene chi ci sia, a Betania: il redivivo Lazzaro, con le sue sorelle Marta e Maria. Gli amici di Gesù: quelli a cui rivolgersi, in ogni occasione, anche solo per un pasto caldo o un posto per dormire.
Se, istintivamente, pensiamo alla persona a cui ciascuno di noi è più legato, probabilmente, alle labbra affiorerà la parola “mamma”. Forse, proprio perché, prima di essere una persona, per ognuno di noi si è rivelata un “posto”: caldo, accogliente, protetto, sicuro.
Forse, è proprio per questo che, quando ci sentiamo “a casa”, cioè a nostro agio, con una persona, è perché abbiamo ritrovato in lei qualcosa di ciò che abbiamo assaporato in quella prima infanzia vissuta nel ventre materno.
La “casa” dove sentirsi bene è come un nuovo utero, in cui poter rientrare, dove ricevere ristoro, pace, tranquillità. Sono queste, infatti, le sensazioni che proviamo quando troviamo, in un’altra persona, quella sintonia che ci fa essere veramente noi stessi, senza complessi, senza convenzioni, senza quella paura di “sfigurare” che ci attanaglia, invece, nelle occasioni più ufficiali.
Ci sono persone che sono il luogo dove la nostra libertà si esprime, senza i vincoli che l’etichetta sociale ci impone, volenti o nolenti. 
Dio ci ha amati e basta! Gratuitamente e senza merito.
Diventare “casa” per Lui è accogliere l’altro, senza pretendere che sia come noi lo vogliamo.

(Rif: Letture festive ambrosiane della IV domenica di Avvento)


Fonti:
San Simpliciano

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