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È Dio, in una manifestazione della propria libertà, a scegliere Israele. Israele non ha merito, non può ascriversi alcun prodigio particolare per cui essere preferito rispetto ad altri popolo. È – e rimane – una libera scelta di Dio la sua elezione e, tramite la voce dei profeti, Jahvè non perde occasione di ricordarglielo, ogni qualvolta la superbia si mette a far capolino. “Non tu, ma Io ti ho scelto”. Puntualizzazione resa magistralmente da tante nostre madri, con la celebre minaccia («Come ti ho fatto, ti disfo») che ricorre – e rincorre – a tutt’oggi i monelli per le strade di paese.
Tale concetto è reso, nella Bibbia, tramite un paragone “medico”. «Egli fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana.» (Gb 5, 17): sebbene la concezione divina veterotestamentaria non sia esattamente coincidente con quella che scaturisce dal Nuovo Testamento, vi è tuttavia la visione di un Dio “incapace di arrabbiarsi fino in fondo”. Pronto a correre in soccorso di Israele, come una madre accorre, di fronte al figlio in pericolo, nonostante l’abbia fatta infuriare fino al momento prima.

«Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo per quelli che si salvano e per quelli che si perdono» (2Cor 2, 15): stupisce il riferimento all’olfatto, senso vituperato e – quasi – dimenticato, specie in questo nostro tempo, dove il mondo del visuale (lo schermo) contende l’esclusiva al tattile (touch). L’olfatto è tra i sensi più misteriosi, che tende a rimandare al misticismo, pur essendo – al contempo – fortemente legato alla materialità. All’olfatto ci affidiamo per intercettare l’approssimarsi dell’ora di pranzo. Il profumo è pungente ricordo di un amore, nostalgia della casa dei nonni, subitaneo ricordo di una situazione, lieta od infelice. Praticamente irriproducibile, il senso dell’olfatto è testimone e compagno di ogni nostra esperienza e ci guida, amico fedele, quando entriamo in connessione con luoghi significativi. Se chiudessimo gli occhi, resterebbero i profumi e gli odori a farci da guida, conducendoci, senza tema d’errore, nel luogo che il cuore sceglie per il proprio riposo.
«Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di Me» (Gv 5,39). Eppure, non Gli basta. Dopo essersi nascosto tra le pieghe della “Parola incartata”, contenuta nelle Sacre Scritture, Dio decide di nascondersi tra le pieghe della storia dell’uomo.  È l’avvento della Parola Incarnata e della Rivoluzione del Cristianesimo.
Parola di Dio, quella contenuta nella Bibbia. Da sempre, oggetto di venerazione e di culto, riposta con cura, srotolata con attenzione, letta con solenne lentezza, ripetuta fino ad impararne a memoria i brani più significativi per ogni israelita.
In una notte di stelle e di gelo, ammantata di chiarore l’oscurità, avviene uno squarcio nella routine del tempio. Il Dio il cui volto era rimasto inconoscibile, il cui nome era impronunciabile, diviene un bambino da prendere in braccio. Due occhi da incrociare con lo sguardo, due manine da accarezzare, un corpo fragile da accudire e far crescere, nel grembo di una donna, che, con lui, nasce alla maternità (divina). Parola di Dio – divenuta carne, sangue, ossa, muscoli e visceri – quel viso paffuto di bimbo che fa capolino dalle braccia della giovane sposa di Giuseppe, della stirpe di Davide, come sancisce il censimento.
Oltre le ferree regole della Legge, nel ventre di una fanciulla che si fa casa per un cucciolo d’uomo, s’allarga la tenda (Is 54, 2) per il Figlio di Dio, che prende dimora tra di noi, uomo tra gli uomini e Dio tra gli uomini.
Oppressi dal dominio romano, i giudei dell’epoca sentivano ancora più forte il richiamo verso il nuovo Messia, nella speranza che potesse essere il “liberatore d’Israele”. Per questo, attingevano fervidamente alla Scrittura, in cerca di “segni”, riguardo il come ed il quando. Di fronte al malessere del proprio popolo, Dio non si sottrae, anzi: rilancia. Non invia loro il liberatore d’Israele, ma il liberatore dell’umanità dalla morsa del Maligno e della Morte: «perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (1Col, 19-20). Cristo è non solo il Messia atteso dagli ebrei, ma si è fatto “speranza di tutte le genti”.
«Il Signore ha pietà di tutte le sue rovine» (Is 51,2): oggi, come allora. Il Suo sguardo d’amore si posa su ogni creatura e su ogni situazione. Nessuna è così dis-graziata da non meritare la Sua attenzione. Avvolge d’amore proprio quelle situazioni in cui sono le rovine a prevalere e il nostro sguardo-troppo-umano ha già emesso sentenza di colpevolezza, negando ogni possibilità di redenzione.
Se c’è una cosa che invece accomuna il Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento è proprio la fedeltà. A fronte delle nostre “fughe”, della nostra incomprensione, di tutte le nostre paure, Lui rimane inamovibile nella Sua fede in ciascuno di noi. Noi “valiamo la pena” di tutto il dipanarsi della  storia della salvezza. Dio sceglie di spendersi per noi e ci viene a cercare, “nonostante tutto”, «come chi solleva un bimbo alla sua guancia» (Os 11,4) perché si rende conto che, nonostante il susseguirsi dei nostri dinieghi, riusciamo solo nell’impresa di acuire la nostra infelicità. E, nel venirci incontro, per compiere il suo disegno di salvezza, si serve di una ragazza di una borgata della Galilea, periferica provincia del potente impero romano, a cui l’umanità, oggi, conserva un debito di gratitudine per quel “sì” impegnativo che ha cambiato la Storia.


(Rif: Letture ambrosiane festive, III Domenica di Avvento, anno B)

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