Povero

I poveri mi hanno sempre infastidito: pur avendo conosciuto da bambino la stagione della povertà – fui spettatore impotente delle lacrime di papà quando ci annunciò la perdita del lavoro – mi è sempre stata d’inciampo. L’ho patita troppo nell’anima, più che nel cibo che era misuratissimo, per amarla senza sotterfugi: quando l’ho potuto fare, l’ho sempre scansata. Il povero mi era ostacolo più che incrocio nella mia personale ricerca della felicità. Lo ammetto: anche del volto di Cristo. Ciò che gli infettati di lebbra procuravano al cuore-matto di Francesco di Assisi, gli accattoni lo ridestavano in me: «Quando ero nei peccati mi pareva cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse da loro e usai con essi misericordia». A casa nostra, in quegli anni, Dio era un lusso che non ci si poteva permettere: meglio i santi, la Madonna, gente più concreta, alla quale chiedere il sole, la pioggia, il pane e la giusta razione di grano d’estate. Il povero, quand’è povero, conosce un solo dogma: la carne. La teologia, quand’è accettata, viene dopo. Quasi sempre alla fine dei discorsi: se c’è posto.
Il povero, quello che m’infastidiva, un giorno mi ha pure provocato: “Perché mi dai sempre soldi e poi scappi? – mi rinfacciò tre anni fa Alessandro, uno dei miei amici clochard. Aveva ragione: gli riempivo la mano-tesa e poi fuggivo: non conoscevo, di lui, nient’altro che il nome. Una sera li rifiutò: “Non voglio più soldi da te – mi disse restituendomi gli euro – voglio dieci minuti di tempo”. Scoprii lì, seduto malvolentieri sui gradini di una chiesa di città, la storia lurida e infangata di Ale: la rabbia, l’angoscia, l’insicurezza che la povertà ti cuce addosso. Era la rievocazione, fatta con voce dell’Est, della storia di casa mia: lo ascoltavo e a me pareva fosse lui che mi ascoltasse, la sua storia era un racconto già sentito nella mia pelle. Quando mi alzai, compresi appieno perché ero così generoso di soldi con lui e qualche altro: volevo che, sazi di qualche euro, se ne andassero al più presto da me. La mia carità era il più egoista dei gesti: “Spostatevi, che io devo andare avanti”. Quel clochard ancora oggi è il mio lebbroso-di-Francesco: «Allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo». Quell’altro Francesco, oggi Papa, perfezionò la mia caduta ricordandomi che Cristo lo trovi nella carne-sofferente dei poveri. O non lo trovi.
Oggi è la loro giornata, la Giornata Mondiale del Povero. Ecco perché oggi io pregherò per i ricchi: perché la povertà, quando ti-tocca, non è affatto bella, è il più spietato degli incubi. È lei a posizionarti sotto le scale, negli scantinati, nei nascondigli: a fare di te un subalterno, un uomo poco libero, uno schiavo. Non è per nulla poetica come amano presentarcela taluni: anche la terra – quella che a casa mia vedo zappare, coltivare, seminare – non è sempre bella. Lo diventa quando è una scelta, un’opzione voluta, un sogno ripreso in mano. Quand’è una costrizione, è la più subdola delle disperazioni. Quella che fa nascere una sorta di eresia da destinare ai ricchi: che la fede del povero sia superiore a quella del ricco. Nient’affatto. Me l’ha spiegato san Francesco di Paola, tramite il racconto geniale di Andrea di Consoli ne “Il miracolo mancato”: a volte, per fare il bene, è necessario mostrarsi forti, per mettere i forti nella condizione di aiutare i deboli. Sono i ricchi i veri protagonisti del riscatto dei poveri: una Chiesa che li esclude è una Chiesa che non riesce ad incidere nelle loro anime, ad aprire brecce nelle loro certezze. Nel Vangelo ci sono i lebbrosi, gli sbandati, gli epilettici e i morti di fame. C’è anche Veronica, Nicodemo: una usava fazzoletti di lino, l’altro aveva una tomba nella roccia. Ricchi, si fecero poveri per amore, non per costrizione.
Prego per i ricchi, oggi, perché iniziano a starmi a cuore i poveri: il merito è di Alessandro. E prego per i poveri, perché diventino ricchi-sfondati e scelgano di rimanere poveri, come il santo di Assisi e infiniti altri. Perché la povertà senza la possibilità della ricchezza è sempre una necessità, mai una virtù. Non è bella.

(da Il Mattino di Padova, 19 novembre 2017)


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