Quella di cucirsi addosso la morbosità della curiosità – meglio se in campo sessuale e affettivo – è la tentazione degli inizi. Il segreto stesso del Male, forse anche la sua indomabile forza: rendere se stesso, nascosto nelle manifestazioni delle sue gesta, una materia d’incontrollabile ingordigia, che finisca per far fare indigestione di vomito a chi accetterà di ficcarci dentro il naso. Vivendo a stretto contatto con male, questa è stata la prima curiosità che mi è andata in frantumi: il male è di una noia così mortale che, a frequentarlo, ci si annoia di brutto. La prima volta il male t’incuriosisce, anche affascina; la seconda volta a stupirti è il fatto che si ripeta nelle sue forme d’annunciazione; la terza decidi che, se così stanno le cose, puoi anche concederti il lusso di dirgli “Chiudi bocca che puzzi: ormai ti conosco senza che tu mi parli di te”. Il male, declinato nei suoi accenti: la rapina a mano armata, il narcotraffico, lo spaccio, l’associazione a delinquere, la bancarotta, l’assalto, l’agguato. Gli intrighi, le bazzecole, i mille raggiri. L’odio.
Lo stupro. Quando, in galera, m’imbatto nella sua eco penso che un vero uomo non stuprerebbe mai una donna: «Della sessualità femminile non fa parte il piacere dell’aggressione» (D. Maraini). Manco dell’uomo: quando lo diventa, lo diventa perché l’uomo è dimentico della sua fragilità. Scorda d’esserlo ancora di più quando finge di non esserlo, facendosi animale-d’assalto, usando gli organi di riproduzione – anche il cuore è un organo riproduttivo – come aggeggi di una meccanica del piacere. In queste settimane lo stupro è materia di sofferenza: quattro ragazzi – definiti, per calcarne la disumanità, “branco” – hanno abusato di una ragazza polacca. E’ vigliaccheria, disumanità, festival-del-demonio: unite il tutto, mescolatelo all’infinito, ancora non riuscirete a definire che cos’è la follia. Uno stupro diventato, giocoforza, materia di cronaca: descrivere il quotidiano per smascherare il male, cercando di ritrovare una forma perduta, è l’accezione più nobile del giornalismo. Quello che, narrandoti l’accaduto, tenta in tutti i modi di farti disgustare di ciò che è accaduto. Il disgusto, a pensarci bene, è l’esatto contrario della curiosità, della curiosità-morbosa: a nessuno, capace d’intendere e volere, piacerebbe leccare un piatto appena riempito di roba vomitata. Al solo pensiero, viene da vomitare. Che, se ci pensate, è l’altra faccia dello stupro – da condannare, far espiare senza tentare l’azzardo della pur minima giustificazione – di Rimini: lo stupro raccontato, con dovizia di particolari, da dei giornalisti alla caccia di prede da soddisfare, facendo della cronaca una cinematografia.
Una ragazza stuprata è femminilità offesa, corpo ustionato da aghi roventi, storia falciata. È materia più-che-sufficiente per vergognarsi d’appartenere al mondo dei cosiddetti umani. Raccontare quello stupro sin nei minimi particolari – facendo un uso pornografico dei verbali di polizia – è far pagare alla vittima un raddoppio di vergogna. Costringerla all’annientamento totale della sua dignità – vendendo il tutto come una forma di difesa di lei, mettendo in mostra la violenta ferocia del branco – dando voce alla sua sofferenza più intima: c’è una cosa più umiliante di prendere in mano un microfono e raccontare, nei dettagli, la propria umiliazione? Il giornalismo, quando s’abbassa alla pastorizia, smaschera il suo intento sotteso, sottinteso: svendersi, per vendere, vendendo. A basso prezzo.
Mi ripeto: un vero uomo non stuprerebbe mai una donna. A me basta così: sapere che qualcuno abdica alla sua umanità per stuprare. Andare oltre è opera della cinematografia, del romanzo. Alla cronaca il compito della interpretazione dei fatti. In questi giorni, invece, qualcuno sale su una storia-terremotata vestito da sciacallo, per poi dire che la sua non è mica frode: è un prendere a prestito. Il gesto dello stupro mi angoscia: così raccontato è induzione-al-vomito.
(da Il Mattino di Padova, 10 settembre 2017)