È nei proverbi che la parola ferisca più della spada, intuizione che non sia solo il corpo a soffrire il dileggio, ma che sia possibile fare del male persino stando lontano, a distanza. Tanto le parole possono, anche grazie ai mezzi di comunicazione, che, tramite il cyberbullismo, la distanza possibile è tale che vittima e carnefice possono trovarsi addirittura a centinaia di chilometri di distanza.
Tuttavia, è vero pure il contrario. Ogni ferita e sopruso nei confronti di un corpo, finisce, inevitabilmente, con l’essere anche abuso di un’anima.
In questi ultimi giorni si sono, purtroppo, succeduti, raccapriccianti episodi di cronaca che, pur differenti per collocazione geografica, provenienza ed età dei soggetti in causa (su tutti: giovane è la turista polacca stuprata, di notte, da un gruppo di uomini a Rimini, anziana è invece la signora violentata a Milano, in pieno giorno), hanno diversi aspetti in comune.
Hanno fatto scalpore, in particolare, le parole lasciate su Facebook dal mediatore culturale Abid Jee: senza che nessuno si scandalizzi, in realtà, ci fornisce alcuni spunti sui quali riflettere.
Che cos’è un atto sessuale? Atto d’amore che comunica amore e, nel comunicarsi, unisce un uomo e una donna. Atto unitivo che lega anima e corpo un uomo e una donna e genera la vita. Solo questo dovrebbe indurre a rispetto e delicatezza nei confronti dell’atto coniugale. Un atto che dà la vita, che ne genera una nuova, specchio dell’amore dei genitori: è qualcosa di incalcolabilmente bello, che dovrebbe provocare sentimenti di gioiosa meraviglia e grato stupore. Scindere l’atto sessuale da ciò che è, vale a dire parte integrante di quel linguaggio di gesti d’amore che è ricco di mille altre sfaccettature ed attenzioni nei confronti dell’amato, porta a far scivolare quell’atto, in sé nobile e fonte di comunicazione e di sentimento, verso lo sfruttamento dell’altra persona per i propri interessi.
È poi fondamentale precisare un dettaglio. Come ben illustra in vari punti Karol Wojtyla, nel suo “Amore e responsabilità”, a questo rischio si affacciano in realtà anche gli sposi stessi. Non basta infatti la semplice unione “istituzionalizzata” quale garanzia di una relazione che sia veramente atto d’amore: anche il sacramento deve essere propriamente incarnato, perché possa davvero vivere la santità che gli è propria. L’apertura all’altro, ai suoi desideri e ai suoi bisogni dovrebbe manifestarsi a maggior ragione nell’atto coniugale per eccellenza che non dovrebbe mai essere un atto di prevaricazione, ma sempre e comunque un atto d’amore, rispettoso delle reciproche diversità: un dono d’amore reciproco di sé all’altro, con tenerezza, nella consapevolezza che solo se il dono è totale non si incontrano solo due corpi ma due anime incarnate nel desiderio di amarsi reciprocamente, nel tentativo, magari a volte goffo – ma sincero! – di amare come ama Dio.
Che cos’è, invece, una violenza sessuale? A livello diciamo così, meccanico, la sua natura non differisce di molto dall’atto sessuale. Il risultato che si può ottenere è simile, ma il contesto, naturalmente, molto diverso. Quello che fa precipitare un atto d’amore in uno di violenza è l’aggressione, la costrizione, la sopraffazione dell’altro. Se si trattasse solo di un oltraggio corporeo, in assenza di ferite, non si dovrebbero avere conseguenze negative. in realtà, non è mai così.
Quindi, si tratta in realtà di una differenza che va al di là della fisicità in senso stretto. Del resto, molto spesso la paura paralizza la donna, motivo per il quale non si rende neppure necessaria la violenza fisica, ma bastano le minacce per ottenere un corpo inerte. Ma non c’è mai solo un corpo, quel corpo è un’anima incarnata, che in quel momento è terrorizzata e non ha le forze per reagire: ma, non per questo, è felice di quel che sta subendo. Tutt’altro. Basti pensare al fatto che questa forma di autodifesa è messa in atto istintivamente da molte specie animali quando vedono minacciata la loro stessa vita
Non solo. Non per questo le conseguenze psicologiche sono minimizzate. Anzi! Spesso, la non-reazione rappresenta la forma più estrema di autodifesa. Quello che, dall’esterno, è visto come passività, dall’interno è, in realtà, uno stato di dissociazione emotivo: tentativo estremo di salvezza, nell’illusione che l’orrore che si sta subendo sia in realtà vissuto da qualcun altro.
Ma non è mai utile per davvero, perché si tratta solo di un’illusione, che può portare alla rimozione del fatto traumatico. La realtà è che, invece, purtroppo, l’uomo ha necessità di passare attraverso alle proprie esperienze, anche e soprattutto dolorose, di guardare in faccia il male e chiamarlo per nome, per potersene davvero allontanare e riuscire, in qualche modo, a voltare pagina.
Sarebbe bello, o meglio, consolatorio, in questi casi, poter separare la propria anima dal corpo. Perché che un corpo subisca un danno non è poi così grave: quante volte le nostre ginocchia si sono sbucciate, o le braccia ustionate? Il più delle volte, nessuno di questi eventi ha mai rappresentato un trauma. Invece, per chiunque abbia subito abusi, di qualunque tipologia, ma soprattutto se legati alla sessualità, le ferite più profonde, spesso rimangono proprio nelle relazioni. Una sorta di paura di fondo appiccicata addosso, difficoltà a fidarsi delle persone, ad aprirsi nei loro confronti ed instaurare profondità nel legame. Troppo forte è il timore che seguano nuove delusioni, più cocenti ancora. Ma soprattutto, quelle ferite che senti proprio lì, da qualche parte, sottopelle, in quell’anima incarnata che a volte vorresti strapparti, come l’ombra di Peter Pan, nel tentativo di ritrovare la serenità perduta.
Ma ciò non può accadere.
Solo se c’è piena consapevolezza della propria unità di corpo, anima, desideri e dignità e del proprio corpo come parte dell’espressione di sé, è possibile instaurare un pensiero di rispetto e valorizzazione, non solo del proprio corpo, ma della propria persona, nella propria integrità e, conseguentemente, anche per chi ci sta intorno.
Nonostante chi subisca violenze così forti viva talvolta il desiderio di annichilmento (tentativi di suicidio), quale espressione della volontà di strappare da sé ogni ricordo residuo delle prevaricazioni subite, ciò di cui c’è, in realtà, veramente bisogno è uno sguardo nuovo di sé che possa essere nuovamente riunificante. La vera salvezza è trovare quell’Abbraccio capace di ricomporre i frammenti di sé che il trauma ha frantumato e sparpagliato, ricostituendo quell’unione indissolubile che costituisce il nostro Sé.
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