C’è un volto che tappezza la città di Padova in questi giorni. Un volto la cui storia, a mo’ di messaggio-in-bottiglia, sta solcando furiosa il mare di internet: è il volto di Aurora, otto anni, la bambina più buona d’Italia. Una storia che il male, quel vecchio farabutto che non guarda in faccia nessuno, s’è intestardito nel vecchio desiderio di graffiare i sogni dei bambini. C’è una città che la piange, c’è un Dio sotto-torchio accusato d’avere preso sonno lasciandoci soli – «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4,38) -, c’è l’eco caliginoso di mille domande: quelle che sono necessarie ai vivi per sopravvivere. Perché una bambina che muore è una bestemmia, una frase senza-senso, uno di quei temi che la buona maestra giudica “fuori-tema”. Invece scopriamo – per l’ennesima volta, non sicuramente l’ultima – che tutto questo accade, colpisce di sorpresa, sbeffeggia fino a tramortire i sensi. Fino a sollevare lo sguardo e bestemmiare il Cielo: “Non t’importa nulla che moriamo?” Perché oltre la morte c’è di più: tutti i mesi passati all’ospedale, tutti i veleni bevuti per smascherare il male, il mistero di quel sangue dentro cui la vita sembra andata fuori-strada. Pensieri d’uomo, di prete: pensieri in corsa mentre un treno deraglia fuori dai binari. Tutti impotenti.
Poi t’appare lei, sfregiata eppur dolcissima. La guardi e pensi alla bellezza sfigurata, trafitta, confusa: eppure bellezza. T’immergi nella sua piccola storia e scopri che l’unica che aveva le carte in regola per arrabbiarsi era lei: “Che male ho fatto, perché a me questo dolore imbecille?” Lei che, invece di bestemmiare il buio tempestoso, ha scelto d’accendere un fiammifero: perché il male trionfi – perché il dolore vinca – è condizione sufficiente che i buoni rinuncino ad agire, stiano a bordo campo. Gli umani quella reazione la chiamano “bontà”, ma è ben poca cosa: è che di fronte alla bellezza siamo sempre a corto di vocabolario. La gioia più violenta è imbattersi in un’anima pura: difficilissimo reggerla, vorremmo poter morire seduta-stante. Perché lei è la “bontà”, ma la bontà è l’antidoto che il male mal-sopporta, non sopporterà mai: «Il giorno in cui acconsentiamo a un po’ di bontà è un giorno che la morte non potrà più strappare dal calendario» (C. Bobin). Il male è un vampiro: succhia, sgonfia, smonta, infetta il sangue, sta alle calcagna, irride. A quel male, Aurora ha deciso di rispondere allargando il cuore: è la storia di quel suo salvadanaio che ha fatto diventare una fontana di speranza per i bambini malati come lei. Per quelli che alla Città della Speranza, pur piccoli all’anagrafe, la sorte ha deciso di fare diventare anzitempo adulti nei sogni. Angeli capaci di rimettere in ordine d’importanza le cose che contano.
La famiglia, prima dei giochi: perché, senza una famiglia, non c’è gioco che ci faccia divertire. L’ultimo sogno di Aurora era il matrimonio di mamma e papà: in tempi di unioni fragili, di amori a tempo-determinato, di cuori che reggono fin tanto che reggono, lei sognava mamma e papà uniti per sempre. Una bambina che chiede questo in punto di morte è la lezione più bella su cosa sia e quanto valga il mistero dell’amore. Non c’è fede che tolga il dolore: il Dio cristiano non ha mai avuto voglia di spiegarlo. Ha preferito sedersi accanto, attraversare assieme, passo-passo. Un Dio con le lacrime agli occhi, così potente d’apparire impotente, inerme e fragile come Aurora. Davanti alle edicole, gliel’ho ributtata addosso un numero di volte pari-a-infinito: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» La sua risposta è stata l’apparizione di un volto, un’annunciazione alla mia blasfemia: Aurora, perché «è gioia senza pecche scoprire un’anima pura, somigliano ai libri dei bambini: hanno poche parole, ma sono piene di fiori» (C. Bobin). Leggo che Aurora è morta. Lei, però, prima s’è nascosta in piccoli gesti d’amore. Non è morta del tutto, dunque: ciò che il bruco chiama fine, la natura chiama farfalla.
In ogni farfalla che vola sorride un bruco che si pensava morto.
(da Il Mattino di Padova, 13 agosto 2017)