libri scuola
Conosco due donne, l’Assunta e la Rosanna, che quando le incontro sono solite sbagliare i pronomi: mi danno del “lei”, quasi fossi loro estraneo. A loro, invece, appartengo fin quasi a provenire-da-loro come da un paese. Mi arrabbio, quando si comportano così: io, invece, rispondo sempre loro col “tu”, il pronome dell’intimità. Ancor oggi quelle due donne sono le-mie-maestre, quelle che negli anni della scuola elementare mi hanno insegnato come si fa a leggere, scrivere, usare le tabelline. Quelle che “auguro a tutti i bambini due maestre così”. La loro grandezza l’ho realizzata tardi, pur avendola percepita tutta sulla mia pelle: prima volevano sentire le nostre domande, poi arrivavano le loro risposte. C’è una scuola che regala risposte senza che un bambino avverta l’annunciarsi di una domanda: sono scuole nelle quali gli studenti sono sacchi da riempire, fino all’orlo. Ci sono scuole nelle quali le risposte degli insegnanti vengono dopo le domande degli alunni: qui dentro lo studente è un fuoco da accendere. Una potenzialità da far esplodere. Sono stato alunno della seconda-scuola: le mie maestre sapevano accendere-fuochi, mica entravano a scuola a riempire sacchi di patate. Le domande, certune volte, riuscivano a risvegliarle loro: geniali!
Ho scritto loro un sms: «Cara maestra, ti ringrazio perché alle elementari non mi hai insegnato cosa succede “quando la donna fa penetrare il pene rigido dell’uomo nella sua vagina” come ha fatto la maestra di Modena. Tu sei stata rivoluzionaria: mi hai insegnato come distinguere la voce di Dio in mezzo ad una foresta di voci quasi-uguali. Ti avevo chiesto io di spiegarmelo, e tu non sei andata fuori-tema parlandomi di ciò che non mi apparteneva: in quinta ancora non mi ponevo l’altro problema. Sempre grato della tua pedagogia”. Il segreto della scuola del mio paese non è mai stata questione di genialità delle maestre: la lealtà delle due-donne è stata quella di credere che, pur bambini, avevamo una coscienza, una consapevolezza. Eravamo, compatibilmente con l’età, anche noi capaci d’intendere, di volere, d’iniziare la nostra personale ricerca del volto della felicità. A memoria, non ricordo che al mio paese sia mai stata fatta una raccolta-firme per fare un corso di educazione all’affettività: semplicemente ci bastava stare con maestre affettivamente-serene per capire che affetto è termine plurale. Nel suo casato figurano, come organi riproduttivi, anche il cuore e il cervello, oltre agli organi genitali. Hanno spiegato anche a noi come funzionano il pene e la vagina: era materia delle scienze. Insomma: ogni cosa a suo tempo, per ogni tempo il suo spazio. Erano preoccupate di veder nascere domande.
In quinta elementare, durante l’ora di religione, la maestra un giorno disse: «Dentro ognuno di noi abita un sogno: nessuno ha un sogno uguale a quello del suo amico. Ascoltate la sua voce e provate ad indovinare qual’è». Ricordo che, presala in disparte, le chiesi: «Scusa, maestra: come si fa a riconoscere la voce di Dio?» Invece che ridere, mi sorrise con una dolcezza che mai scorderò: capii che aveva capito di che pasta poteva essere fatto il mio sogno. Mi confidò delle cose, parlò di me al prete del paese, condivise quella domanda con la mia mamma. Poi – e questa è ancora oggi, ai miei occhi, la sua grandezza – non si spinse mai oltre con la curiosità: stettero tutte e tre, mamma e maestre, in disparte. Pronte ad intervenire, mai giocatrici d’azzardo, nè d’anticipo. Dopo tre mesi iniziai, vestito della mia libertà-bambina, l’avventura del seminario-minore: nessun’altra storia ha superato in bellezza quella stagione della mia vita. Sul web spopola la lezione della maestra di Modena. Su “Le ragioni della speranza” di oggi (Rai1, 17.30) sono tornato in seminario. È la mia domanda alla maestra di Modena: che cosa succede quando un bambino si lascia guardare da Cristo?

(da Il Mattino di Padova, 10 giugno 2017)

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