Quaranta giorni anche stavolta. Poi dissero addio! Alle vecchie barche, alle reti sdrucite dal tempo: ai paesi natii, alle madri rimaste appresso al lavatoio, ai vecchi mestieri paterni. Era la seconda volta che salutavano: fu quella definitiva. Ritrovato l’Amore dopo i giorni del sangue, la sua rivelazione divenne l’unica certezza: non aveva fatto loro nessuna promessa, ma siccome tenne fede alla premessa – «Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi» (Gv 14,18) – conclusero tra loro ch’era la persona giusta per la quale lasciar perdere ogni altra vanità. Mossi ancora una volta i piedi al suo seguito, divengono gli «itineranti di un viaggio che sarà interrotto soltanto da tappe di sangue» (G. Papini) Tutti gli altri, quelli che dopo aver messo mano all’aratro si volteranno all’indietro, han deciso che saranno discepoli del dio-di-menzogna: quello che continua a fare promesse senza che nessuno gliele chieda. C’è posto per l’uno e per l’altro: che ognuno si scelga il suo Dio. Dopodiché decise lui che il tempo s’era fatto maturo.
Per quaranta giorni apparve a destra e a manca, sulle colline e nei retrobottega, a favore di uno, di cinquemila: pareva d’essere tornati ai vecchi tempi. A differenza che non fece più vita-comune come allora, il tempo della prima-sequela. Non per questo divenne loro foresto: tornò a frequentare i loro ritrovi, ricominciò ad intromettersi nei discorsi, ribadì per filo e per segno tutto quello che s’erano detti fino allora. Siccome l’ora era giunta anche per loro – per lui di trarsi in disparte poggiando il mondo in mano loro – fornì le ultime istruzioni e ripartì ancora una volta con loro: «Li condusse fuori verso Betania» (Lc 24,50). Non volle metter loro nessuna fretta: insegnò loro, però, che la parola data va mantenuta entro questa vita. Dunque partirono. Ripartirono.
Lui, dopo quaranta giorni, doveva partire di nuovo. Quando partì, stavolta salutò tutti. Lo fece nel modo che gli era più congeniale, nel tempo diventato il più familiare: «Alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo» (Lc 24,50-51). E’ con una storia d’orfani che Luca cala al suo Vangelo le serrande: questa, pare, la conclusione della ciurma degli amici suoi. Che, giusto il tempo di riprendersi dallo spavento d’esser rimasti soli, soli restano per davvero. Li beccano con il naso all’insù, nel gesto tipico di chi è preda dello sconforto, forse anche vittima del rimpianto: «Perché state a guardare il cielo?» (At 1,11). Svegliati, s’accorsero del tetto ch’era stato loro posizionato sopra la loro testa: «Le mani benedicenti di Cristo sono come un tetto che ci protegge. Nella fede sappiamo che Gesù, benedicendo, tiene le sua mani stese su di noi. E’ questa la ragione permanente della gioia cristiana» (J. Ratzinger). Tra loro, qualcuno aveva tradito ad oltranza, qualche altro dubitò fino all’ultimo che fosse ritornato, altri ancora mai si dettero ragione dei loro fraintendimenti. Nulla, però, sta più nel loro cuore del fatto d’essere case con un tetto di roccia: petti fragili, sotto cieli di tempesta, protetti da mani di roccia, ch’è materia di fiducia.
Rincasano a Gerusalemme, i loro volti sono il ritratto della gioia: eppure il loro Maestro è partito, li ha lasciati ancora una volta soli, soli contro un nemico infinito chiamato mondo. Eppure il cuore è ebbro di gioia: i più, vedutili ridere in quella maniera, dissero che s’erano intontiti nel prestare ancora fiducia alle vecchie-favole: «Ogni addio lascia dietro di sé un dolore. Come poteva non renderli tristi il suo congedo definitivo?» (J. Ratzinger). Altri sospettarono che almeno stavolta avessero scoperto il segreto che aveva reso bello ai loro occhi l’Amico, tenuto loro nascosto per anni: l’allegrezza. Per questo, rincasando, s’accorsero che erano «luminosi di malinconica gioia, pensando alla nuova giornata: la prima di un’opera che, dopo quasi due millenni, non è ancor terminata» (G. Papini). Gioiosi perché seppero di star sotto un tetto di parole dette-bene. Benedette. La più detta-bene di tutte: “Andate, adesso tocca a voi, amici miei! Resterò sempre con voi: la storia portatela avanti voi. Voi con me: assieme”. Sono umani con scritto fragile sul volto, il loro cuore è un’altalena d’emozioni, addosso portano cucite storie, le loro, che parlano da sé. Eppur sono stati scelti, esattamente loro, per tentare la più folle delle attraversate: andare avanti, tenendosi stretta la memoria dell’accaduto. Ben stretti all’Uomo appena risorto. Via, di corsa, all’assalto: forza, guardateli!
La ciurma s’è svegliata? Non proprio, s’è vero ciò che scrive Luca a chiusura di un racconto che – l’ha giurato a Timoteo – è stato curato fin nei minimi dettagli: appena tornati, i discepoli «stavano sempre nel tempio lodando Dio» (Lc 24,53). Ancora dentro, rattrappiti: a poggiare le fondamenta della chiesa-delle-nuvole, coi fiori sull’altare di santa Rita, a trastullarsi con le cose dell’anima, quelle eteree, fumose. Dentro, da soli, perché, a parte le ore di punta, non si trova anima. A pettinarsi la barba, battersi il petto, lacrimarsi addosso: “Quant’era bello al tempo in cui c’era lui”. Tutti-dentro, «fino a quel sacro dì, quando su te lo Spirito Rinnovator discese, l’inconsueta fiaccola nella tua destra accese» (A. Manzoni). Tutto previsto, comunque. Anche stavolta.
(da M. Pozza, L’iradiddìo, San Paolo 2017)
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Matteo 28,16-20).