Difficile pensare ad un’esperienza umana più viscerale di quella di essere madre. Un’esperienza per la quale esserlo “nella carne e col sangue” non equivarrà mai esattamente a ciò che vive chi, per scelta o per accidente, è privata di questo vissuto.
Avvertire il proprio figlio crescere tra le proprie viscere, sin dal primo momento del suo concepimento, diventare – quasi – un tutt’uno con lui, sentirlo scalciare e farsi, via via, più grande e più forte, fino ad essere la prima ad accorgersi del momento in cui, pronto per uscire, inizia invece per lei il travaglio del parto, momento atteso e temuto al contempo. Sarà poi a lei che guarderà, quasi come ad un dio, nei primi mesi di vita: da lei si aspetterà cibo, calore, cure, attenzioni, amore. Quasi come se il padre non ci fosse: nei primi mesi di vita, è così, che lo si voglia o no.
Essere padre sarà sempre diverso. Nessun padre ha portato il proprio figlio nel grembo. Non è un giudizio di qualità (non vuol certo dire amare di meno!), naturalmente, bensì una semplice constatazione di evidente differenza. E, per quanto successivamente, potrebbe diventare il genitore preferito, non potrà mai vantare quel legame speciale che si instaura tra madre e figlio in quei nove mesi di vita intrauterina. È innegabile, infatti, che un uomo non potrà mai affrontare l’esperienza di una gravidanza. La sua natura è differente: è concepito per altri scopi.
Ecco perché, ad esempio, di fronte ad un’adozione, l’uomo, tendenzialmente, avvertirà una differenza inferiore nella propria esperienza di paternità, rispetto alla donna.
Madre Elvira, fondatrice della Comunità Cenacolo e madre di tanti figli “perduti”.
Madre Speranza da Collevalanza, religiosa e mistica spagnola, ora beata.
Madre Teresa di Calcutta, speranza di tanti poveri cristi in vita e anche ora, santificata, sembra essere sempre e comunque, innanzitutto, madre.
Sembra quasi paradossale che alcune donne che, per scelta, hanno rinunciato ad una maternità vissuta “nella carne e nel sangue”, siano ostinatamente ricordate proprio per la loro tenerezza materna. Come se questa caratteristica sopravanzasse tutte le altre, senza tuttavia necessitare di essere vissuta in modo carnale. Come se la maternità (e, per converso, la paternità), fossero iscritte con tale profondità, nell’animo umano, che solo tramite esse è possibile la pienezza della sua realizzazione. E, proprio per questo, anche la consacrazione a Dio non può essere vista, innanzitutto, come una rinuncia al matrimonio, bensì come un differente modo di vivere maternità e paternità in uno stato di vita alternativo, rispetto a chi sceglie il matrimonio.
Persino la beatificazione o la santificazione sembrano incapaci di scalfire questa caratteristica, tanto che, dopo anni ormai in cui talune di esse sono ormai agli onori degli altari, alle labbra ritorna, spontaneo ed imperterrito quel nome: Madre!
“Siate madri, non zitelle”, ebbe modo di raccomandare papa Francesco alle consacrate. Il rischio è concreto e, in realtà, si apre sia agli uomini che alle donne e non rende immuni l’aver generato figli. C’è una sterilità del cuore che può colpire chiunque ma che può essere evitata se è vissuta la fecondità dell’amore paterno e materno, indifferentemente dalla propria condizione o stato di vita.
L’amore fecondo è quello che muore per l’altro. Che fa morire il proprio sé per lasciare spazio agli altri. Attenzione a non confonderlo col martirio non richiesto, che spesso finisce con l’essere, al contrario, un diverso modo di ricercare autoglorificazione. Si tratta di saper rinunciare a dire “io”, per un “tu” in cui riponiamo fiducia. E, proprio per tale motivo, non si tratta di un sacrificio, ma di una conseguenza vissuta in letizia e serenità.
«Ave, Maria, traboccante di grazia. Sarai Madre del Signore: l’Altissimo stenderà il suo manto sopra di te e concepirai un figlio: Gesù» (cfr. Lc 1,28-37). Questo l’annuncio che l’angelo fece all’umanità e che cambiò la storia dell’umanità.
Theotókos, madre di Dio. Fu il concilio di Efeso, il 22 giugno 431, a sancire che questo titolo spettasse a pieno diritto alla Madonna. E, tramite l’apostolo Giovanni, Madre di ciascuno di noi. Forse è davvero questo il nome più bello, con cui chiamare Maria di Nazareth.