«No, noi ortodossi pratichiamo sempre!» mi ha risposto, con un sorriso disarmante, un piccolo fedele copto egiziano, di non ancora dodici anni, al mio interessamento sulla differente organizzazione sacramentale e sull’ipotesi che qualcuno, ad un certo punto, possa smettere di frequentare la chiesa. Lo ha escluso in modo così categorico, da far quasi venire il dubbio che non vi fosse neppure la libertà di poterlo pensare. Non è così, naturalmente: qualunque organizzazione religiosa sia presente, se Dio non vuole togliere la libertà a nessuno dei propri figli, incurante delle colpe che potrebbero giustificare una tale scelta, chi altri potrebbe arrogarsi questo diritto?
Di colpo, mi ha assalito il pensiero di come, in effetti, sia un’assurdità logica, prima ancora che teologica. il malcostume, uniformemente diffuso e, a quanto pare, tutto occidentale, del definirsi “credenti – non praticanti”.
Sola fides? Qualcuno, forse, si è illuso di trovare in questa definizione l’umiltà che meglio descriva la condizione umana, rispetto a Dio. Giustamente, Giacomo ci ricorda però che «la fede, senza le opere, è morta» (Gc 2, 26). Come minimo, è insensata.
Anche Satana conosce la Parola di Dio. Ne abbiamo prova nei Vangeli delle Tentazioni (cfr. Mt 4,1 – 11), senza dimenticare le testimonianze che derivano dagli esorcismi, in ogni epoca e luogo. Conoscere i propri avversari è – da sempre – un’ottima strategia per combatterli.
Credere non basta, quindi, ed anche conoscere non è sufficiente. Cercare, sperare, entrare in dialogo, anche nella difficoltà, è l’unico modo perché la relazione viva. La fede non è un possesso: è un incontro, che si rinnova quotidianamente. Non solo la fede sfiorisce, se viene dimenticata. Lo stesso accade ad un’amicizia, ad una relazione, ad una famiglia, se scegliamo di trascurarla, quando non la capiamo, oppure quando ci sembra impegnativo dedicarle cura ed attenzione. La “pratica” della fede non è inseguire una ricompensa o illudersi, tramite essa, di potersi meritare il Paradiso. L’amore non si merita. Ma richiede pragmaticità. Non c’è bisogno di essere particolarmente religiosi, per capirlo. Nessun affetto può essere autentico, se si limita alle parole. Nessuno di noi si accontenta di parole di fiducia, se, alla richiesta di una collaborazione, di un sostegno, di una presenza, quella persona nicchia e si defila. Si accetta la sua libera scelta, ma di certo non potremo mai ritenere quello un affetto “degno di fede”, se, alla prova della necessità, questo preferisce non “sporcarsi le mani”.
Quindi, ben venga, pure il litigio con Dio: se si ama, si parla e si discute.“Non capisco, Signore”. “Faccio fatica a fidarmi”. La sincerità è sempre la scelta migliore, a costo di risultare impopolari. Credere non significa trovare tutte le risposte, ma accettare di cercarle in compagnia di una Presenza e di una comunità di persone che, pur nella loro imperfezione, ci sono compagni nel cammino.
L’idillio è solo nelle favole! La fede non significa – almeno nella maggioranza dei casi, neppure tra i santi – la granitica certezza del proprio rapporto con Dio. Anzi, probabilmente, alla fede si potrebbe tranquillamente applicare quella citazione attribuita a John Lennon, a proposito della vita: «è ciò che ci accade, quando stiamo facendo altri progetti». La vera fede non è andare in chiesa, ma quello sguardo che permea ogni ambito del nostro agire e che diventa, per ciò stesso, muta testimonianza di fede.
Un secondo pensiero mi ha poi accarezzato la mente. Dev’essere stato una sorta di shock, per questi fedeli copti, abituati ad una fede da vivere con coraggioso ardimento e rinnovato entusiasmo, questa flemma insipida, che troppo spesso caratterizza la nostra fede occidentale, ridotta, quando va bene, alla recita di giaculatorie unicamente retaggio della tradizione, che però ha perso ogni smalto. Per non parlare del rischio enorme che si va delineando: una nazione, come la nostra, i cui profili sono stati segnati, nel tempo, da campanili e croci, che si sono fatti tangibile presenza dell’Eterno nella storia dell’uomo, sta perdendo la linfa della fede. Perché quei luoghi e quei simboli, se non sono vissuti nel cuore degli uomini, rimangono poco più che un ammasso di pietre e una muta invocazione di Bellezza ad un cielo che, se non è muto, risulta lontano dagli affetti familiari e consueti della nostra quotidianità.
Approdare in una terra distante, magari proprio a causa delle persecuzioni subite in patria e poi capitare in un luogo che – ai loro occhi – ha la grazia della libertà, che però non è vissuta né sfruttata in pienezza, ma – al contrario – è la pigrizia a dominare, più che la scelta di fede oppure no. In un Occidente vicino alla scristianizzazione, forse, potrebbe essere proprio la sensibilità di un Oriente cristiano, mistico e convincente, ad avere “le carte in regola” per ricordarci come essere credenti-credibili, spingendoci a ritornare alle origini della nostra fede (che è germogliata proprio in mezzo ad incomprensioni e persecuzioni e non in garanzie di libertà e serenità).
Situazioni come quella capitata con il piccolo teologo in erba mi fanno assaporare come non esista insegnante che non impari dai propri allievi sempre più di quanto s’illuda di far loro apprendere!
Quando un uomo ha grossi problemi, dovrebbe rivolgersi ad un bambino; sono loro, in un modo o nell’altro, a possedere il sogno e la libertà. (Fedor Dostoevskij)