Puoi studiare tutto lo scibile umano. Puoi approfondire ogni campo del sapere. Ma non sarà abbastanza.Non sarà mai abbastanza, quando si tratta di avere a che fare con le persone.
Perché nessuna scienza sarà abbastanza capiente per contenere l’infinito.
Forse è questo il vero e l’inestricabile fascino che l’essere umano esercita sui propri simili. L’uomo è – probabilmente – l’unico, fra tutti i viventi, che non si accontenta soltanto di esistere, ma percepisce il correre inevitabile della propria esistenza. E se ne domanda il perché.
Siamo immersi in uno spazio infinito, quale è l’universo, che si regge su una precarietà che dà le vertigini. Siamo come appesi un filo, tanto sono infinitesimali le proporzioni e le variabili a cui si fa appello per la stessa esistenza della terra. E se pensiamo a quante condizioni siano cambiate, sul nostro pianeta, dal suo esistere, il primo miracolo di cui ringraziare è che abbia ancora le condizioni necessarie ad ospitare la vita. Del resto, l’affermazione stessa che lo spazio sia infinito si riduce a mera ipotesi, dal momento che essa, al contrario di quanto imporrebbe il metodo scientifico non è – evidentemente – riproducibile in laboratorio.
Ma non basta. Noi stessi siamo infinito, perché – in noi – c’è molto di più di quanto ci sia possibile verificare coi nostri sensi. Abbiamo possibilità sempre superiori alle nostre aspettative, cosicché, se ci prestiamo attenzione, abbiamo l’opportunità di spostare pressoché quotidianamente, l’asticella del nostro limite, migliorando continuamente qualcosa di noi stessi.
Ecco perché noi stessi siamo i primi a sfuggire a noi stessi. Benché ci conosciamo da sempre, scopriamo qualcosa di nuovo su noi stessi, ogni giorno, con crescente consapevolezza,.
E lo stesso vale per ogni essere umano. Lo stesso illimite che sperimentiamo per noi stessi, lo percepiamo anche nei riguardi delle persone che ci stanno intorno, e a cui vogliamo bene. Ci accorgiamo che, anche le persone che conosciamo da molto tempo, non possono mai essere, del tutto, contenute né dalla nostra mente, né dai nostri sensi. Ecco quindi che le relazioni non sono mai semplici, ma rappresentano la complessità di creature che esprimono interessi, desideri, sogni, aspettative, aspirazioni, di cui la prima di tutte, la più grande, è tanto ambiziosa da essere infinita.
Non morire.
Nessuno vuole la morte. La morte è la più naturale delle conseguenze della vita, di ogni vita – è la biologia a farcelo sapere, insieme con la nostra personale esperienza! -. Eppure la percepiamo ugualmente come estranea, nemica, avversa: un’opposizione insopportabile alla nostra possibilità di realizzazione: perché?
Ciò che è biologico dovrebbe essere inscritto in noi, come ogni legge di natura. Forse, allora, c’è qualcosa di più: o i nostri desideri e le nostre aspirazioni sono insensate (ipotesi decisamente rara, in natura, dal momento che essa tende ad instillare bisogni coordinati alle effettive necessità), oppure viene da pensare che non bastino le leggi della natura a descriverci. Secondo questa seconda ipotesi, quindi, noi avremmo qualcosa che oltrepassa la natura.
Su questa constatazione, si basa l’affermazione della nostra somiglianza con Dio («Egli ci ha fatti, e noi siamo suoi» – Salmo 99): non si tratta di un possesso, come lo penseremmo noi (cioè un movimento affettivo che riduce l’altro al mio volere), ma, piuttosto, un complemento di provenienza. Noi veniamo da Lui: Lui ci ha voluti e ci conosce e solo in Lui possiamo realizzarci davvero.
Ecco perché siamo della “stessa sostanza” di Dio: scaturiamo dal pensiero della Sua mente, attraverso cui ci ha chiamati all’esistenza, dall’inizio del mondo. A noi, tuttavia, resta la libertà della scelta di aderire (o meno) al Suo progetto, disegnato su misura del Suo sogno su di noi. Non è nostro, il sogno, e possiamo percepirlo chiaramente, quando ci rendiamo conto che la nostra vita supera anche le nostre più rosee aspettative: è lì che arriva il segnale che non siamo noi a farci, ma è Lui-che-ci-fa, se abbiamo il coraggio di lasciare mano libera al Suo spirito.