Parola furiosa, indocile, prenotata. Oltrechè eterna. E’ una processione variegata di clergyman bianchi confusi tra veli neri e qualche paio di laico vestire quella che varca la cattedrale nell’appuntamento settembrino che apre il sipario sul nuovo anno pastorale diocesano. 459 parrocchie che tenteranno l’impresa di fare comunità battendo traccia del medesimo sentiero: con fatica, con stupore, con quotidiana fedeltà. Ma bizzarria vuole che oggi dai pulpiti si preferirà abbandonarsi tra i vicoli della brochure, delle proposte, degli appuntamenti e si traslocherà in soffitta la Parola Eterna: programma primo calato diretto senza rischio di fraintendimenti. E’ Parola violenta, indomabile, riservata questa domenica. Raffinata nella sua minuzia. C’è una chiesa che si rimette in cammino, Lei ne vorrebbe rinfrescare i lineamenti: “Ammoniscilo fra te e lui solo” (Mt 18,15-20). Stranezza. O complicità. Perché oggi la Parola s’incunea in un’ulcera fastidiosa: la passione per la mormorazione, l’insinuazione, i sospetti, le maldicenze. Sferzata anticipata dal Martini Cardinale mesi fa quando denunciò nebbie e nefandezze dei sacri servitori. In una chiesa in cui al linguaggio dei bambini si preferisce quello dei rabbini – dimenticando la preferenza di Cristo per il tempo a scapito del tempio – campeggia oggi una Parola che c’inginocchia ad apprendere dalla Natura.
Dai fonti alpestri e dalle mulattiere silenziose si snoda l’antica cerimonia agricola della transumanza: gioia di fotografi e poeti, viandanti e guerrieri, massaie e giovincelle rapite. Cerimonia che racconta di un passaggio, un movimento, uno spostamento – deriva da trans-humus – che significa “spostarsi da una terra all’altra”. Transumanza per il bestiame ma pure per l’uomo, seppur coperto dal servizio all’Eterno. Per passare dall’acquitrino della mormorazione al terreno bonificato della correzione. Per riesumare quel linguaggio piombato in disuso tra i templi ubriachi di incensi e fiori che parla di bellezza e stima, di talenti e carismi, di applausi e riconoscenza. Quel linguaggio che – smascherando la gelosia – parla di passione per la creatività, il rischio, l’anelito di battere strade nuove, sentieri inesplorati. Lessico nel quale la fede è ancora conciliabile con una testa che pensa. “Giovane profeta” ribattezzò un vecchio curato il suo collaboratore nel vacuo intento di scomporne la creativa fedeltà. Per uno strano scherzo celeste, rese pubblico l’elogio più bello: perché Legge Divina chiede che chi ha udito la sua Voce anche una sola volta, non possa non essere profeta, spina nel fianco di chi s’è infossato nel sistema. Immagina Tommaso, Bartolomeo, Natanaele e Filippo pizzicati in cerchio mentre giocano a taboo con la gente nelle piazze dell’antica Grecia per paura di nominare certe parole, un certo Nome, un Amato! Ci provò Zaccaria profeta a non fidarsi della Parola: rimase muto fino a miracolo compiuto. A imperitura dimostrazione che chi non ascolta la Parola diventa privo di parola. O inanella lente filastrocche che sarebbero la fortuna di un’intera edizione dello Zecchino d’oro.
Perché non sono le idee ma gli incontri che cambiano la vita.
Con l’Uomo della Croce, prima di tutto.
Foto: Gigi Abriani