Quando quella donna arriva al giardino, tutt’intorno ci sono ancora le tenebre, non è ancora sorto il giorno. E, di certo, anche nel suo cuore erano le tenebre a dominare, non ancora sgominate dalla certezza che la bella storia di un Messia che veniva dalla Galilea non fosse arrivata al capolinea.
Maria di Migdal e l’ostinazione di stare lì, davanti a quel sepolcro. A quel mucchio di sassi che la separa da quel corpo, che sa che non potrà tornare. Corpo che aveva imparato a conoscere, amare. Da cui era sicuramente stata toccata, con la delicatezza che aveva imparato a far propria alla scuola di Nazareth, con quello sguardo capace di accarezzare, ma anche interrogare ed inquietare. Quello sguardo che aveva rivoltato il mondo come un calzino, mettendo in discussione certezze secolari e proponendo di tornare a guardare la vita con gli occhi di chi davvero la ama: Dio. Quello sguardo che sapeva non avrebbe mai più rivisto, dal momento in cui le palpebre avevano imprigionato gli occhi per l’ultima volta.
Il dolore per la perdita di una persona cara non è un vero e proprio odore. È più probabilmente nostalgia, mancanza di quello che è stato, nella consapevolezza che non potrà tornare. Di non avere più un corpo da abbracciare, una voce da ascoltare, un sorriso da ricevere.
Ogni dolore nasce da una separazione, spiegava, con acume, San Tommaso d’Aquino. E, alla radice di tutto, vi è la separazione da Dio, alla cui unione noi stessi siamo – ontologicamente – connaturati. Ecco, quindi, che ogni lutto si rivela a noi come una ferita della carne: come il fiore, reciso dalla pianta madre, avvertiamo insopportabile il distacco avvenuto e non riusciamo ad accorgerci che tale separazione avviene per un nuovo innesto ed una maggiore fecondità.
Possiamo ribellarci, tentare di sottrarci a questo, oppure scegliere di attraversarlo, di passarci attraverso. E questo è il vero coraggio di chi non abdica al senso di realtà, trastullandosi nei sogni.
È il coraggio di Maria, che accetta la realtà, non la condivide e si ostina a cercarne un senso, anche se le sfugge. È il coraggio della perseveranza e dell’incomprensione. Perché è molto più comodo rimanere nell’illusione di comprendere tutto (ma è solo la rassicurante illusione con la quale ci culliamo), piuttosto che avere l’umiltà di ammettere la nostra più totale incapacità di comprendere. “Non capisco”. Noi, come i discepoli. Perché anche i Dodici, a leggere il Vangelo, non hanno fatto altro che passare da un’incomprensione ad un fraintendimento, costringendo ogni volta Cristo a rispiegare sempre le stesse cose. È il coraggio di vedersi piccoli, di fronte ad un Mistero così grande da trascenderci.
Non è ancora fede. Ma, in concreto, ne diventa l’anticamera. Probabilmente, anche lei, come i discepoli, non ricorda le parole del Maestro al riguardo. Quel rapido capovolgimento di quei giorni, quel profondo sconvolgimento dato da quel ripido piano inclinato, che ha condotto lei, con lui e tutta la sua la truppa ad un inesorabile declino, l’ha confusa, obnubilando ed annebbiando ogni ricordo ed ogni eventuale, precedente comprensione.
Eppure, in quell’ostinazione, si cela l’intuizione che può portare alla fede. Se il buon senso, la ragione ed i sensi stessi non fanno che ripetere: “Rassegnati! È Morto. Fine della storia. Datti pace, torna al tuo posto, alla tua vita, alle tue occupazioni!”, qualcosa spinge a rimanere. Come se fosse possibile almeno sperare in qualcos’altro.
L’Amore riesce a guardare oltre. Precede la fede, ne spiana il cammino, ne feconda il campo.
“Maria!”. “Maestro mio!”. Il dialogo più breve ed intenso di tutta la storia del Vangelo. Un nome, una voce. Ed è subito agnizione. L’Odissea, al confronto, è faccenda di poco conto. Qui ci son due cuori che si riconoscono per lo stesso battito. Se “le parole son fonte di malintesi” (Antoine de Saint-Exupéry), Cristo ne fa economia e bada all’essenziale. Maria riconosce il Cristo Risorto perché ne è riconosciuta e, con ciò, vede ristabilirsi quella relazione che sembrava finita, quel legame che sembrava reciso per sempre. La tentazione è quella di stringere a sé l’Amico ritrovato, ma il suo compito è diverso: c’è una nuova avventura da scrivere.
Eccola, la speranza che accende la Pasqua di una luce nuova. La storia non è finita. La vita ha vinto. E, sulle fragili parole di una donna (che non aveva alcun valore legale, come testimonianza), inizia il dopo-Cristo, cioè l’avventura della Chiesa!