Uomini risorti, in piedi, ci hanno raccontato le loro storie. In piedi, come un Vangelo: perché la posizione eretta è quella del Risorto e, per questo la liturgia richiede che, al contrario delle altre letture (che si ascoltano seduti, cioè in posizione d’ascolto) la si ascolti in piedi, perché va annunciato e proclamato, non solo letto.
Antonio, Carlo, Guido, Armand Davide, Alfredo. Cinque uomini diversi, attualmente in carcere, ognuno con una storia diversa alle proprie spalle, ognuno con una pena diversa da scontare, ognuno ad un punto diverso del proprio cammino. Chi ergastolo, chi con possibilità di lavoro all’esterno, chi all’interno, senza dimenticare la simpatia dell’orgoglioso sagrestano (con tanto di certificato del vescovo). Eppure, tutti capaci di comunicare l’identica consapevolezza della possibilità di guardare al proprio passato con una ritrovata serenità, che oltrepassa i limiti imposti dal carcere e dalla pena loro comminata. C’è una libertà che può essere assaporata nell’intimo, che può pervaderci come un profumo, incapace di lasciarsi stoppare dalle inferriate o dalle sbarre.
Storie. Storie di resurrezione, avvenute dietro alle sbarre di un carcere. Come fiori, sbocciati, all’improvviso, nel deserto. Che poi, a ben vedere, l’improvviso non esiste. L’improvviso è quello che a noi sembra di vedere dal fuori. Se potessimo vedere dal di dentro, noi vedremo la poetica magia del seme che, rompendosi sotto la terra, frantumandosi, riesce a gettare le radici e, radicandosi, riesce a dare lo slancio a quel fiore che noi vediamo sbocciare.
Noi come loro: anche la nostra storia ha bisogno di riscoprire la sua benedizione; anche noi abbiamo bisogno di perdonarci, per sentirci perdonati.
A volte, la superbia è un tentativo di servirci degli altri per un fine buono. Siamo convinti che quel fine buono giustifichi ogni nostro atto e pensiamo che perfino il Cielo debba piegarsi al nostro agire. Noi vorremmo essere artefici della conversione del prossimo, Lui ci chiede invece di essere disponibili a farci prossimi a chi decide Lui. L’altro, con la sua libertà, è un confine invalicabile. Limita il nostro agire. Com’è giusto che sia. Perché non possiamo sopravanzarlo o prenderne il posto. Siamo chiamati ad accettare tempi distesi, perché è Dio che agisce e Dio non usa il contaminuti.
L’uomo propone, Dio dispone dice un proverbio popolare. E non va lontano dal vero, nel ricordarci che non sta a noi dire a Dio cosa sia necessario che Lui faccia.
La vera superbia consiste nel credere il proprio errore più grande dell’amore di Dio. La vera dannazione è già qui: è questa. Un pensiero del genere, radicato nella profondità del cuore, ci fa sentire dannati, in quanto non amati e non accolti. Siamo perdonati, se impariamo a perdonarci. L’unico peccato di cui non si ha notizia abbia ricevuto perdono, nei Vangeli, è quello di Giuda. Ma non si ha notizia neppure che l’abbia chiesto ed il motivo è stata una disperazione che (nel suo cuore) ha superato la fiducia nell’amore di Dio.
La vicenda di Pietro (che oggi diciamo santo ma che ha avuto modo di dare abbondanti grattacapi al Maestro) c’è lo esemplifica: Dio esige molto, ma, nell’amore, concede fiducia rinnovata, oltre ogni umana logica.
“Possiamo aiutare solo chi si lascia aiutare” mi disse un mio amico, non credente. In realtà ha detto una grande verità. Siamo figli di Dio, che possiedono una libertà tale che neppure Dio può imporsi su chi non Lo vuole. In nome di chi potremmo, quindi, imporci noi?
Risorgere con Cristo significa, anzitutto, accogliere e far fruttificare – per sé e per gli altri – quella libertà che ci fa essere figli, amati dall’eternità e da sempre chiamati a vivere immersi nel suo amore.
(foto: Izabela Machala)