PapaDorme

Quello cristiano è un Dio-giovane. Non un Dio che voglia rimanere giovane a tutti i costi: un Dio, invece, capace di stare al passo con tutti i tempi. Un Dio d’immaginabile pazienza, nel cui guardare trattiene la grammatica degli agguati: «Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto il fico» (Gv 1,46). Un Dio d’inaspettata fretta, anche: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5). Pazienza e fretta: gli ingredienti con i quali Dio si ostina ad amalgamare storia sacra. L’avventura della salvezza è un abito su misura che certifica la sartoria di Dio: nessun’anima è uguale ad un’altra, non si trova storia che sia riproduzione di un’altra. Neanche le città s’assomigliano. A Milano, città-della-fretta, Cristo sbarca come pellegrino-di-pazienza: s’intrufola nella loro risaputa frettolosità – s’adatta al passo – per innestare la logica della pazienza. Anche Dio, quando serve, sa camminare di fretta pur di non perdersi l’appuntamento con un’anima. Adattarsi alla velocità dell’uomo non è immiserire Dio, un ribasso di divinità: è, piuttosto, innalzamento di umanità. La città è già nello sguardo di Dio ancor prima d’accorgersene: capita sempre così in amore.
A Milano Francesco sarà pellegrino-di-pazienza. In una città di fretta, però, il programma è senza-respiro: dalle Case Bianche di via Salomone alla basilica laica dello stadio San Siro, attraverso il Duomo di Carlo Borromeo, il carcere di San Vittore, il parco di Monza. “Che non dipingiate le case perché arrivo io, che non cambiate i campanelli” – è stato il favore chiesto dal Papa, confidatomi da un parroco della Brianza. Non un vezzo, bensì lo stile dell’Evangelo: Dio chiama nel daffare quotidiano, nel vissuto feriale. Il contrario della bellezza – Francesco l’ha appreso in periferia – non è mai la bruttezza, è l’estetica: il truccarsi, anche il troppo-prepararsi, maquillage di forma più che trasformazione della sostanza. Francesco è di-Dio: non vuole che lo trattino come la regina di Saint-Exupéry, «che volle fare una visita tra i suoi sudditi per sapere se si rallegravano del suo regno. Per trarla in inganno i suoi cortigiani fecero sorgere sul suo cammino qualche festosa scenografia e fecero ballare, a pagamento, alcune comparse. Ella nulla intravide del suo regno, all’infuori di quel sottile filo conduttore: non seppe che nelle campagne coloro che morivano di fame la maledivano». Non ci cadrà, Francesco, in questa trappola da visite-pastorali. La periferia, ancora una volta, diventa il salotto: la bella-Milano, nel primo sabato di primavera, si esibirà dal basso, si lascerà contemplare dai bassifondi, gusterà come la città cambi sapore se scrutata dal basso o dall’alto, in compagnia dei vincitori o dei perduti. Il Papa non viene per la Milano-di-pietra, s’è incamminato per quella di-carne: che è ferita, slabbrata, striata. Forse anche un po’ annoiatasi di se stessa.
In un piccolissimo particolare – così minuto da non comparire nemmeno nell’ufficiosità del programma – scorgo l’auspicio rivoluzionario di Francesco per Milano: «Dopo pranzo, il papa riposa dieci minuti», rivela en-passant il parroco del carcere di San Vittore. Che il Papa riposi è un piacevole annuncio: pure Dio, lavorando, s’affatica. Ha bisogno d’arrestarsi un attimo, per ripartire spedito. Ci si riposa a casa, in un luogo in cui sentirsi protetti, tra mura-amiche. Francesco schiaccerà un pisolino in carcere. Non s’era mai sentito, prima d’ora, che per un Papa il posto più sicuro per dormire-in-pace in una città fosse il luogo che rende agitata una città. Tra il ferro e il cemento di San Vittore, non nell’episcopio, il Papa si riparerà dalla fretta meneghina: lì, con gente andata-di-fretta, Dio sa operare con pazienza. Dormire lì è lasciar-fare a Dio: fidarsi che, mentre l’agricoltore dorme, il seme cresce, germoglia. Sartoria è ricucire, restaurare, medicare. È il tempo maggiore quello che il Papa vivrà nella basilica-umana di san Vittore: non tanto per conoscere ciò che già-conosce, ma per far-conoscere ciò che la città vorrebbe non-conoscere affatto: che la bellezza giace sempre nell’imperfezione.

(da Il Sussidiario, 25 marzo 2017)

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