Ancor oggi – dopo essere stata abitata da un profeta randagio – Barbiana è una terra sconosciuta alle mappe. L’ultima segnaletica, l’unica, sta appesa sul tronco di un albero, a pochi metri dall’arrivo: «Le strade storte, i tetti sfondati, il fango rappreso, le porte rotte, le stanze fredde, i sandali bucati, la vita senza parole, le croste sui ginocchi dei bimbi balbuzienti» (E. Affinati). Terra che porta cucito addosso il nome di chi l’ha resa terra-santa: la curazia – che è meno di una parrocchia – di don Lorenzo Milani, uno dei più fulgidi profeti del Novecento ecclesiale, uno dei cervelli più spigolosi e mistici dell’ultimo secolo di cultura. Là, e non nel silenzio vergine delle aule teologiche, venne alla luce Lettera ad una professoressa, la più ambiziosa condivisione sull’arte di educare che, a distanza di cinquant’anni (1967-2017), rimane ancor oggi la stazione di partenza per chi, come don Lorenzo, sposa l’avventura dell’insegnare per accettare d’imparare.
Il lavoro-sporco, quello che fece di Barbiana il punto panoramico dal quale ammirare l’abisso dell’anima analfabeta, abita tutto nella rude stringatezza di un verbo: “educare”. Là – dove i vertici della Chiesa erano quasi certi non ci fosse più nemmeno la civiltà, figurarsi il sapere – don Lorenzo trovò il coraggio di vivisezionarlo all’osso, di strappargli il nettare. Educare è voce del verbo ferirsi, bruciare, accettare di farsi del male: questa era l’avventura dell’educazione per lui. Che, educando, scoprì di educarsi: «Io ho insegnato loro ad esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere» – sintetizza Eraldo Affinati nel suo romanzo “L’uomo del futuro”. Educare, a Barbiana, era una sorta di trasfusione di sangue tra l’educatore e i suoi alunni: il suo nel loro, quello loro nel suo. Fino a non riuscire più a riconoscere, una volta entrati in circolo, quale dei due fosse proprietà di uno o dell’altro: i loro sangui erano incroci di sangui. Il mistero della scuola di Barbiana sta qui: l’educatore non dimentichi mai che ogni incontro è anche un colpo alle proprie certezze. Educare è sporgersi fino sul ciglio, abitare il confine estremo della propria identità. Rimettere ogni giorno sul tavolo le carte del proprio sapere, pronti a rigiocarsele daccapo non appena gli sguardi si toccano: quello di chi insegna, quello di chi apprende. Perché se colui che insegna si scorda, anche per un solo attimo, che chi lo ascolta gli sta anche insegnando, l’educazione è un treno deragliato, una strada interrotta, stupore spento. Educare è l’arte più spericolata di tutte: è necessario sporgersi sull’oltre.
Col sacro fuoco del sacerdozio, impreziosito dagli arnesi del suo sapere – ch’era di una vastità illimitata – nell’eremitaggio di Barbiana don Milani compose una delle lezioni più nobili del Novecento: a cambiare gli altri è solo ciò che, prima, ha cambiato noi stessi. Di chi insegna si dice che è insegnante, anche professore. Quest’ultimo ha la stessa radice di “professare”, il verbo della fede, della professione di fede. Educare, dunque, è professare la propria fede: nella propria materia, nella propria esistenza, nel proprio Dio. “Professo davanti a tutti che questo incontro mi ha cambiato la vita. Che senza questa materia la mia esistenza scolorirebbe fino alla noia; che senza Dio la mia storia apparirebbe una stramaledetta cosa dopo l’altra”. È questo che professa – o non professa – colui che indossa le vesti dell’educatore. Confessa, di sé, di essere ladro di una bellezza che sente di non meritare ma che, avendogli sequestrato il cuore, non è più capace di far tacere. Fu questa – anche se gli avversari la liquidarono come la conseguenza di un cervello geniale – l’arte di don Lorenzo: accettare di esporsi in una terra che non aveva scelto, una terra offesa: “Mandiamolo lassù. Sono tutti analfabeti”. Lo fecero stare-in-tensione: lui accettò. Siccome accettò, gli riuscì di far scorrere nelle vene dei poveracci il sangue delle stirpi nobili.
(da Il Mattino di Padova, 12 marzo 2017)