L’orologio, per un attimo, s’arresta: batte le 15.37 locali (11,37 in Italia), è il 26 febbraio 2016, esattamente un anno fa. L’annuncio è di quelli da mandare in visibilio il mondo dell’alpinismo, il sistema delle sfide: è la prima volta nella storia che l’uomo conquista la vetta del Nanga-Parbat d’inverno. La quota impaurisce: 8126 metri, la nona vetta della terra. Il soprannome le accredita una reverenza divina: “killer mountain”, la montagna assassina. Il trenta per cento di coloro che l’hanno tentata, non è più rincasato: la sua nudità è dilaniante, la sua prestanza atterrisce. D’inverno è di una bellezza-maledetta, estatica, sopraffine. Gli uomini che salgono fin lassù, salgono per amare e corteggiare: non si sale per soldi o gloria. Sono in quattro: c’è Simone Moro, uno degli interpreti più ardimentosi dell’alpinismo mondiale. Un pezzo dell’Italia più bella, quella manovale e silente. Quella sicurissima che, senza la base, scordatevi le altezze: «È nata come un corteggiamento, un sogno, non come sfida. La montagna non va sfidata: la si deve desiderare – ci racconta in esclusiva nell’anniversario -. Quella cima per trent’anni è stato il sogno proibito dei più forti scalatori al mondo. Si è fatta desiderare, ha richiesto un supplemento di perseveranza, di pazienza. Di sicuro non è stato frutto d’improvvisazione, né un azzardo: ero alla mia quindicesima spedizione invernale!» Non c’è azzardo nell’amore: c’è solo il pathos d’accettare i rischi che l’amore porta. D’andare a stanare l’allegrezza della felicità: «Scalo le vette perché mi rende felice». Lo stesso Simone che, spesso, si è fermato ad un passo dalla vetta, perché «la mia felicità, come diceva Teresa di Calcutta, non è una destinazione, è un percorso. La rinuncia è essa stessa un atto felice, significa che c’è stato un viaggio. È anche capitato che la rinuncia mi abbia permesso di vincere, accettando solo di posticipare il successo». Parole, fatti.
La tentazione a mollare-tutto dopo la tragedia dell’Annapurna, natale 1997, raccontata nel bestseller Cometa in Annapurna (Corbaccio, 1997), il racconto di un’amicizia indimenticabile. Notte bastarda, funesta, luttuosa: la montagna s’era portata via Anatolij Bukreev: «Era il mio maestro, il più grande amico che la montagna mi avesse fatto incontrare: gigante nell’animo, di roccia nel fisico. Anatolij interpretava un alpinismo silenzioso ma dirompente: una macchina da guerra, un animale da sopravvivenza, l’umile campione che non conosceva limiti. Sulla montagna era di casa. Gli leggevo la pace nell’anima». Scampato a quella mattanza, lo scalatore bergamasco rafforza la sua certezza: l’andare in verticale sarà la sua passione, la direzione. Nel nome di Anatolij, memoria che consola: «È tutto come vent’anni fa: condizioni proibitive, poche “finestre” di bel tempo, la precarietà. Ad essere cambiato sono io: più maturo, più esperto, più stratega». La strategia di chi sa bene che, ad un’olimpiade, si può vincere l’oro nel salto-in-alto anche se l’asticella qualche volta è caduta. L’accettazione del fallimento come chance di vittoria: «Non sono l’unico innamorato dell’alpinismo invernale. Sono forse quello che si è dedicato di più ad alta quota». È poco? La montagna non ama concedersi a turisti distratti: ama essere ossequiata, anche lusingata. Chiede si calcoli il prezzo del corteggiamento: «Mai pensato di partire rischiando di morire, ma ho sempre vissuto intensamente sapendo che la morte arriva come un ladro: quando meno te l’aspetti. Per morire occorre aver vissuto, essere in vita. Cerco di lavorare sull’intensità della mia vita, del mio essere-nel-mondo». Presenti a se stessi, per farsi trovare puntuali quando la vita passa: è la velocità perfetta del gabbiano Jonathan Livingstone. E accelerare: «Non sfido il limite, solo lo spingo un po’ oltre, rimanendo in un’area di rischio gestibile. La schiena me la spacco di allenamenti, di studio del particolare: così aumentano forze e sogni». Tutto il resto è roba-da-osteria.
D’inverno, da soli, sulle cime: «È un altro mondo: nessun rumore, nessuna presenza umana, tutto selvaggio, intricato. Siamo fuori dal tempo, ai limiti della sopravvivenza, dell’adattamento». Non occorre poco, non serve tanto. Occorre tutto. Essere terribilmente uomini: «A 8000 metri l’uomo è lo stesso che al livello del mare. Forse, lassù, è più vero, con meno false gentilezze. Ho incrociato l’amicizia di Anatolij, la stronzaggine di altri. Il problema non è dove-sei, ma chi-sei come uomo». L’umano non è mai un grattacapo di quota, è una faccenda di educazione-civica. Di dilatazione della propria anima: «Il limite non esiste: è uno steccato momentaneo. Il rischio più grande? Vegetare, ossessionandosi nel cercare certezze: la vita richiede il gusto dell’attimo. La motivazione è il fuoco». Tre ingredienti, un elisir d’alta quota, uno scarto d’umano in più: «La montagna mi ha insegnato il rispetto e l’amore: se la sfidi, ti uccide. Se la ami, ti aiuta a guardarti dentro: certe volte ho visto tracce di un grande Architetto». Parole del re del Nanga-Parbat. No, signori: è il verbo di Simone Moro, «un sognatore mai fermo, in cammino. Perché l’impossibile non esiste se si è disposti a mettere in gioco l’anima, il corpo». Lo spazio, il tempo: a giocarsi l’eterno nel quotidiano.
Sulla cima stanno in tre: un basco, un pakistano, un italiano. Appena dietro (per loro, anche lei ha strappato la vetta, ndr) appare, sfuggevole, la sagoma di una giovane donna. Si è bloccata a settanta metri dalla cima: sarebbe stata la prima donna al mondo a vincere un ottomila d’inverno. Poco più che trentenne, è la compagna-di-quota di Simone: «Sono orgoglioso d’averla appassionata agli Ottomila, otto anni fa, e averla scelta come compagna di cordata. Le ho aperto le porte, mi sono fatto consigliere: ora brilla di luce propria. Basterà ancora poco per capire chi è come alpinista, come donna». Tamara Lunger, la bolzanina: la versione-femminile di Simone. Anche no: nessuno, quand’è nudo sotto il cielo, è mai la fotocopia di qualche altro. Prototipi, inediti, avventurieri, disposti a farsi trasfusioni di passione pur di non appiattirsi all’ombra del quotidiano. Sempre in fase di parto, in rampa di lancio, con gli scarponi ai piedi: «Stiamo ripartendo, in compagnia di Tamara, per una nuova spedizione. Potremmo riuscire a spingere il limite umano ancora un po’ in là. Vedremo se saremo all’altezza, se la fortuna ci assisterà». Materia per il proseguo del suo “Nanga. Fra rispetto e pazienza, come ho corteggiato la montagna che chiamavano assassina” (Rizzoli, 2017). L’assassina è stata conquistata, sedotta.
Corteggiare, assassinare, pazientare: vite thrilling ad alte-quote. Là dietro, una donna sta già applicando l’insegnamento: rinunciare, per conquistare. Sta raccogliendo il mantello: una sorta di eredità. E’ il picco massimo della bellezza al limite: storie affascinanti, perché uomini affascinati. Vite in-cordata.
(da Il Sussidiario, 26 febbraio 2017)
FotoArchivio Simone Moro
(Alex Txikon, Tamara Lunger, Simone Moro, Alì Sadpara al campo base dopo la storica prima-invernale del Nanga Parbat – 8126 m.)