L’annuncio di Michael Gillon, coordinatore della ricerca, pare dirompente: sono stati scoperti sette pianeti “gemelli” della terra. In teoria, dunque, potrebbe esserci della vita lassù. I ricercatori hanno scoperto che tre dei sette pianeti si trovano nella zona-abitabile, cioè stanno nella distanza ottima dalla stella per poter avere acqua e atmosfera: «E’ un sistema planetario eccezionale – dice Gillon – non solo perché i suoi pianeti sono così numerosi, ma perché hanno tutti dimensioni sorprendentemente simili a quelle della terra». Spazi nuovi che, dunque, potrebbero ospitare degli oceani, anche vita. Un tam-tam che è subito rimbalzato in tutto il mondo, alimentando e incoraggiando l’eterno sospetto che batte nel cuore della scienza: chissà se anche lassù ci sarà traccia dell’uomo.
La strada che porta ad una scoperta della scienza è un perpetuo conflitto di meraviglia. È anche un formidabile esercizio d’intelligenza, di perlustrazione negli abissi di ciò che esiste. Perché se tutto ciò esiste da sempre – si parla di “scoprire”, non di “inventare” -, allora teniamo in tasca l’ennesima prova che scoprire altro non è che vedere ciò che tutti vedono e iniziare a pensare ciò che nessuno ha mai pensato prima. È il lavoro di chi s’apparta da-solo con la nudità della materia: lo scienziato, lo scultore, il pittore, lo scrittore. L’uomo d’arte: quella materia esiste da sempre, ma nessuno aveva saputo leggerci dentro quello che appare solo adesso, a lui che è chino su di lei. Pur non praticando il mondo della scienza, da sempre mi affascina questa perpetua follia d’intrighi tra creato e Creatore: dentro il creato, all’inizio, Dio ha posto l’essenza della meraviglia, della perfezione: «Dio vide che era cosa (molto) buona» (Gen 1). All’uomo ha lasciato come dote l’avventura di andare a cercare quelle tracce di vita, per poi dare loro un nome, una fisionomia a questo pianeta-meraviglia: il cercare come guadagno dell’essere certi ci sia qualcosa di nascosto. Il creato come uno di quei libri tanto cari a Italo Calvino, quelli che lo portavano a dire che «d’un classico, ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima». Il mondo è sempre lo stesso: ci sono occhi che, nel tempo, si dispongono meglio a inabissarsi, a perlustrarlo, ad abitarlo da cittadino non da campeggiatore. Nel porgersi, anche nello sporgersi, fin sul ciglio del mistero, del baratro, e chiedersi se anche lassù, a qualcuno, il cuore non batta degli stessi battiti dei quali batte il mio. L’uomo, l’abitacolo curioso del cuore umano: l’uomo pensa ai suoi simili.
Il verbo scoprire è un verbo che ben s’addice con il trovare qualcosa che non c’era: la scoperta il più delle volte diventa brevetto, invenzione. È anche un verbo, però, che ama abbinarsi a ciò che c’era e, forse, si pensava perduto: è la scoperta che diventa ri-scoperta, la creazione ri-creazione. Anche questa, da qualsiasi parte la si contempli, è una delle scoperte più emozionanti: la sedia, quella che aveva la gamba rotta, è stata aggiustata. La casa, quella col tetto pericolante, è stata rimessa in sicurezza. La strada, dissestata, è stata riparata. L’uomo, quello “maledetto”, è stato educato: si è lasciato ammansire. È l’altra faccia dello stupore di una scoperta: l’intelletto gioisce al solo pensare che ci sia l’uomo anche altrove, abitante di altri pianeti. Non riesce più a sentire battere il cuore quando scopre, giornali alla mano, che l’uomo-perduto – anche quello reo di misfatti, peccatore, diabolico – è tornato ad imboccare la strada che porta alla casa. Forse che scoprire, in questi casi, è più un restaurare che un inventare, il ritoccare una casa invece che innalzarla da zero, un ricredersi più che stupirsi.
M’affascina assai sapere che lassù, a 39 anni luce dalla terra, la vita può vantare qualche chance. M’incuriosce ancor di più che, sul pianerottolo di casa mia, ci sia un uomo che, distruttosi con le sue mani, sia riuscito a scoprire un senso capace di mostrargli frammenti di vita laddove c’erano detriti di morte.
(da Il Mattino di Padova, 26 febbraio 2017)
Buona settimana!
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