La memoria è carne che ancora arde feroce, la sua eco è una lama affilata e tagliente: la ferita chissà mai se si cicatrizzerà. Quel modello di macchina, la Uno-bianca, non tornerà più ad essere proprietà privata della FIAT. Appartiene, da oltre vent’anni, all’immaginario collettivo. Non solo un’auto: una delle pagine di cronaca nera più efferate dell’ultimo mezzo secolo d’Italia. Una macchina con serigrafati addosso i suoi tristi personaggi. I tristi luoghi: il quartiere Pilastro, nel mezzo di Bologna. Italia del Nord: quella sicura, proprietà-privata. Alberto Savi proviene da questa storia come si proviene da un paese. Qualche giorno fa, gli è stato concesso un permesso-premio di dodici ore dopo ventitré anni di galera, gli ultimi quindici passati tra le sbarre-di-Padova. La ferita torna a sanguinare.
E’ sangue nella memoria delle vittime: «Che muoiano là dentro». A nessun umano, che non voglia mutarsi in bestia, potrà mai essere accordato il lusso di scordare il male, personale o collettivo. Il male, forse, si potrà solo tentare di comprenderlo: se, poi, nemmeno a comprenderlo si riesce, almeno conoscerne la fisionomia. «Non voglio vendetta, voglio giustizia», grida una delle mamme la cui storia è stata travolta da quell’auto. Chiede giustizia, mica vendetta: parole piangenti. E’ la ferita che si riapre anche per il carnefice, Alberto: con certe storie sulle spalle, il solo pensiero di rimettere piede nella città procura nausea. Nessuna scusante è lecita: ognuno ne rimarrà responsabile anche fuori. Anche dei tentativi fatti per cavarselo di dosso quel bastardo. Ha ragione la madre che piange: nessuno gli restituirà il figlio strappato. Ha ragione Alberto, capo-chino e profilo-basso: lui, da quella famiglia-armata, si è staccato anni fa, si è caricato il fardello, si è accollato tutte le sue responsabilità. Anche quel muto-silenzio che, fattosi parola, avrebbe forse allentato la mattanza. «La giustizia divina può perdonare, la giustizia terrena è un’altra cosa» disse il cardinale Carlo Cafarra durante la messa al Pilastro quel giorno. Chi scrive conosce il mondo che, da quei famigerati giorni, è andato costruendosi attorno ad Alberto: chi per dovere, chi per professionalità, chi per buon-cuore. Un mondo che per vent’anni ha tentato la riorganizzazione di una storia, dopo averla ingabbiata nel ferro della prigione, dell’assunzione di responsabilità. Per l’Italia Alberto è ancora “quello della Uno-Bianca”: ci può stare, forse è giusto sia così. Nessun uomo, però, è un mai fotogramma: in tutte queste annate di ferro-e-cemento giace, anche, una strada nuova. Il senso della pena inflittagli: «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». “Tendere” è un verbo bellissimo: dice sforzo, possibilità d’intralcio, di successo, tentativi nel tendere l’arco. Nessuna pena-di-morte, dunque, per la Costituzione Italiana. Bensì tutto quello che con Alberto s’è fatto, per rispondere alla giustizia terrena: il percorso di mediazione penale; la meditazione silenziosa di chi, giudice, dietro quei faldoni di cicatrici si è arrovellato a cercare un perché; il silenzio inerme di una madre, la loro, che per tre volte si sarà sentita colpevole. O forse no: perché le madri, fatto tutto il possibile, sanno accettare d’essere state serve-inutili. Nessun cavillo è stato infranto, nessuna memoria è stata irrisa. E’ stata riaccesa la speranza: non di cancellare la faccenda, ma di veder nascere un senso nuovo dentro di essa.
Chi legge starà dicendo: «Vorrei vedere se toccasse a te!» Non l’accetto: il male e il bene sono un vestito su misura. La libertà non è produzione-in-serie, è un atelier: nessun preconfezionamento, dunque nessuna generalizzazione. Che ognuno sia responsabile delle sue gesta. Che ognuno, però, non dimentichi di calcolare l’inedito che, sovente, potrebbe infilarsi nell’anima dell’altro, che non sono io. A volte sono crepe, fenditure, barlumi: in una notte di galera succede di tutto. Anche l’inimmaginabile: che un carnefice, preso a pugni il passato, scopra cos’è redimersi infilandosi nei panni di chi non c’è più. Che una vittima, striata di lacrime, ammetta che una morte, cara e sofferta, abbia prodotto la conversione del malfattore. E’ capitato, dunque potrà capitare molto più facilmente che se non fosse mai accaduto. Tanto poi, alla fine, Alberto sa già qual’è la sua nuova identità: potranno anche dirgli, un giorno, d’essere un ex-detenuto. Lui sa molto bene di non potersi mai dire d’essere stato un ex-omicida. E’ la vera pena per un’anima che torna a guardarsi: le ferite lasciano cicatrici indelebili, dappertutto.
Le cicatrici, però, sono ferite guarite: il sangue, in questo caso, ha redento.
(da Il Sussidiario, 25 febbraio 2017)