Nell’ingresso in uno dei tempi forti più importanti dell’anno liturgico, il rischio è quello di valutare come negativo ciò che è il nostro più grande vantaggio: conosciamo la meta, al contrario degli apostoli, che attendevano con ansia il seguito di ogni passo verso Gerusalemme.
Al solo nominare quella città, l’angoscia cresceva incessantemente, nella truppa: non era chiaro, forse, neppure a loro, ma aleggiava una quasi – certezza che la morte del Cristo sarebbe venuta proprio da quel luogo: la sede del potere, religioso e politico, che quel Maestro venuto da Nazareth, cresciuto da un carpentiere aveva messo in discussione con al sua predicazione per le vie della Galilea. Per loro, Gerusalemme, era la morte. Sì, è vero: aveva parlato loro della Resurrezione, ma era sembrato un insegnamento troppo complicato, non verificabile con i parametri dei sensi e, conseguentemente, avevano cercato di rimuoverlo, riuscendovi brillantemente. Ecco, quindi, che i discepoli, si trovarono un po’ impreparati ad affrontare l’evento che ha cambiato il corso delle loro vite. E delle nostre.
Noi, però, abbiamo un vantaggio e, forti di questo, potremmo arrivare alla meta con più consapevolezza. Sappiamo come si conclude la Quaresima. Ci attende il Triduo Pasquale, che trova il proprio compimento in quella tomba vuota, che racchiude in sé il senso stesso del Cristianesimo: lo stupore di fronte alla vittoria della Vita sulla Morte, nella speranza concreta che a quest’ultima non sia lasciata l’estrema parola su di noi.
La nostra meta è la libertà. Quella stessa sete di libertà che spinse gli Ebrei, pur ricalcitranti di fronte alle difficoltà crescenti (Num 11, 1-6), a barattare le cipolle d’Egitto con il profumo di una terra ignota, che non dava alcuna garanzia immediata. Perché la libertà è una sfida che richiede di rischiare un salto nel buio, verso l’ignoto di una strada nuova, che domanda fiducia in chi conduce e pretende il coraggio di calpestare le orme di un Maestro che insegna, camminando.
È in quest’ottica che è bello inserire la quaresima, coi suoi riti, che ci riporta all’essenziale. Perché la vera libertà passa dalla rinuncia di ciò che appesantisce, come ben sa ogni viandante in cammino, non solo la schiena, ma anche il passo.
Un pugnetto di cenere sul capo e l’invito alla penitenza, quale gavetta a tenerci compagnia nel tempo della Quaresima. Accompagnati, talvolta, dalla sensazione di un rito quasi anacronistico.
Mentre, in realtà, è talmente attuale da essere “senza tempo”. Perché il primo ruolo che gioca il calendario liturgico è, innanzitutto, quello di aiutarci a vivere con consapevolezza il tempo presente, con gli occhi sempre rivolti alla nostra meta. Non c’è masochismo di sorta nelle rinunce quaresimali, ma il tentativo di vivere la fede sulla propria pelle, strappandola alla tentazione di rimanere nell’astratta approssimazione, per saldarla al nostro quotidiano vivere.
Diventare noi per primi presenza, per abitare il tempo presente. Essere presenti, innanzitutto a noi stessi, farci presenza, al prossimo e a Dio: coltivare le relazioni, assaporando le parole ed il silenzio che le nutrono. Forse questo è un impegno che può accomunarci, nel tentativo di riscoprire il vero volto del Padre, nella Sua Chiesa.
Con la consapevolezza, non pessimista ma semplicemente realistica, che «essere cristiano è un’eterna promessa, che in quanto tale non è mai adempiuta» (A. Von Speyr): la sfida è avvicinarci, ogni giorno di più, a quest’aspirazione, che si appoggia alla certezza di essere stati scelti, con infinito amore, da Colui che, fidandosi di noi, ci chiama per nome, invitandoci a misurare la nostra vita con la grandezza dei Suoi sogni.
Cenere e acqua, racchiudono, come un sipario, lo spazio che ci separa dalla Pasqua di Cristo. Quasi una nuova creazione, quella che ci attende nel cammino che ci conduce alla solennità che rende vera la nostra speranza: la Resurrezione.
Buon cammino di Quaresima!