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È una terra-crocifissa la mia, paese di mezza montagna: poco più che una strada, ad agganciare il pianoro con l’aspra montagna. “È chiave per i monti” (clad-venis) dissero i romani la prima volta che la videro. S’innamorarono: quel giorno escogitarono il nome del paese più bello al mondo. Qui, però, la guerra è stata un brutto-affare, il post-guerra un fratricidio: le lapidi – sulle mulattiere, nelle edicole dei capitelli, sul bordo della strada – al viandante raccontano di corpi squartati, d’anime inquiete, di pagine insanguinate. Dopo oltre mezzo-secolo, certi sguardi sono ancora bellici: per un’offesa fatta a qualche padre, per un terreno mal diviso, per uno sgarbo di sfuggita. “Siamo diventati forestieri a casa nostra” diciamo. E, senza che ce ne accorgiamo, ci scambiamo il complimento più bello, il più alto complemento-d’identità, condizione-prima di partenza per qualunque cammino: «Senza di questa è facile ubriacarsi, prendersi per padroni del suolo, dell’aria, dell’acqua e del fuoco, spartirsi tra pochi le quote abusive di un condominio del mondo» (E. de Luca).
Gente di guerra, gente di buon-cuore: è la mia gente.
Il crocifisso in legno, un pezzo del 1400, stava appeso dentro una vecchia stanza: tra camici tarmati, casule di chierici defunti, umidità e menefreghismo. Ci si lavava le mani voltandogli le spalle, tentavamo i primi amori vestendoci da chierichetti, ci scambiavamo le figurine, le letterine d’amore. Ci spartivamo i compiti per la messa: “A me il turibolo, a te le candele. Tu niente: sei buono a nulla”. Il tutto sotto gli occhi del crocifisso che, muto, non moveva ciglio: confondevamo il silenzio per complicità. Fino al giorno in cui il nuovo parroco s’invaghì di quel Cristo e, senza troppi consulti, s’intestardì a restaurarlo. Lo trasse fuori dalla stamberga, lo fece fissare alla destra dell’altare, lo porse sotto gli occhi di tutti. Dopo qualche anno a mendicare benefattori, lo mandò al restauro, l’esatto opposto del mandare al macero.
Nel frattempo, ci era diventato simpatico.
Così simpatico che, nel tempo della sua mancanza, la gente del paese aveva voce solo per lui: “Quando torna? Stan sistemandolo bene? Mi raccomando, padre: che lo trattino bene” Lo chiedevano come si chiede di un amico, d’un protettore: senza, ci sentivamo tutti come gente senza più un padre. La sera che tornò, rincasò a furor di popolo: il paese scese in piazza, le campane impazzite, gli occhi lucidi di lacrime. Frotte di donne coi bambini in braccio: “È tornato!” gridò qualcuno, risollevato. Era tornato il Cristo: se lo son caricati in spalla gli uomini – gli stessi che ancor oggi lo sfidano a colpi di bestemmie – e l’hanno portato in chiesa. A metà chiesa, in centro chiesa, nel cuore dello spazio-sacro: lì, di un vecchio pulpito in legno, uomini d’arte avevan fatto un solido basamento per il Crocifisso. L’hanno posizionato lì, al centro delle attenzioni: quella sera il Cristo era al centro di tutti gli sguardi. Bellissimo.
Ha un volto strano il nostro Cristo. Non porta lo strazio del venerdì santo, non c’è ancora traccia del mattino di Pasqua: è un volto che, oltrepassata la burrasca, sta approdando sulla spiaggia. Pur trafitto, ha il volto d’una consolazione materna. Confortante: ha i lineamenti dell’uomo che, in pace col mondo, sta dormendo sonni di quiete. Di sera, nell’oscurità della chiesa, una luce l’illumina. In quello sguardo sono racchiusi secoli d’intimità, ai suoi piedi si sono inginocchiate generazioni d’anime – belligeranti, pacifiche, fuggitive -, a quei chiodi hanno appeso storie di disgrazia e d’angoscia, a quel cuore hanno confidato l’inconfessabile. Da quell’Uomo siamo stati tutti perdonati dell’imperdonabile. Al mio paese quello è l’Uomo ineffabile.
Il prete ch’è arrivato dopo, forse non conosceva così bene la storia paesana. Con un colpo di mano sferrato di notte, ha preso il Cristo e la spostato in uno dei due lati della chiesa: “Al centro ci deve stare il Risorto, non la croce” fu la sua difesa. Pur dotta e teologica, il popolo non la prese affatto bene, sopratutto quello che mai metteva piede in chiesa. In tanti scesero in piazza, intimando una mezza-rivolta: “Che nessuno tocchi il nostro Crocifisso” disse l’uno facente-funzione di tutti. Una ciurma di bestemmiatori da trivio mise in scena una delle più belle catechesi vespertine: spiegarono al loro prete, a parole loro, che anche la loro storia era stata crocifissa, che le loro mani erano forate, che certi figli s’erano spappolati sotto le cannonate. Gli fecero notare che il volto del loro Cristo non era quello di un morto, bensì d’un essere disteso, rilassato.
Era il Dio che si stava preparando per uscire di casa la domenica.
Avevano bisogno di quel volto riposato per continuare a credere.
Il prete, quella sera, cedette: il Crocifisso, ancor oggi, campeggia in mezzo alla chiesa, la pieve-madre del circondario. Ogni settembre, nei giorni prossimi alla festa dell’Esaltazione della Santa Croce, in paese imbastiscono una delle sagre più ambite della zona. Vengono da tutto il vicinato per vedere un’intera comunità che, seduta con un piatto di polenta e coniglio, continua a scandire il tempo in un modo tutto-loro: “L’anno che siamo entrati in guerra, la stagione dei funghi, il mese della sagra. La mattina del funerale, l’ora della via-crucis, la settimana delle Quarantore, il periodo della caccia”. Al paese la storia s’insegna con date-nostrane.
Anche la mia piccola fede, ha una data ben precisa: “La sera che è tornato il Crocifisso”. Era di settembre, la stagione del-ritorno: delle bestie dall’alpeggio, degli amici dalle vacanze, di Cristo dal restauro. Oggi, da queste parti, quasi nessuno va più in chiesa: ognuno prega Cristo a modo suo. C’è però la sagra di settembre, ch’è il ricordo del Cristo in-mezzo-alla-Chiesa: l’ultimo avamposto d’una fede difficile e struggente. D’un Dio che ancora non s’è stancato di noi e, col volto disteso, s’ostina a tenere il domicilio nella nostra comunità.
Nei paesi vicini tutti pregano i santi, le sagre le han messe in piedi intorno alle loro feste, per organizzare loro una bella festa: la fiera di san Giovanni, Egidio, Gioacchino e Anna, Rocco. Pure evangelisti: la fiera di San Matteo, il mercato di san Luca. Al mio paese, anni fa, hanno fatto le cose in grande: sono andati a prendersi come patroni due pezzi-da-novanta: Cristo, esaltato in croce, e Maria, Madonna dell’Annunciazione. Sarà per questo che, nelle burrasche della vita, passando davanti alla Chiesa sentono d’essere come assicurati.

Al nostro paese la Croce è una sagra, il più grande spettacolo di metà settembre. L’estate si chiude con un volto riposato.
Non è il volto del venerdì: la fede non è un’esecuzione.
Non è il volto della domenica: la nostra, non è ancora fede risorta.
È il volto del sabato. Dell’indugio: “Dici che accada davvero?”

«Arriverà l’estate anche per te, è solo una questione di stagioni e di tempo. O di persone» (Omero).
Anche la fede è una cotta formidabile, come gli amori d’estate. Per questa stagione ci è persino concesso di credere che quella canzone l’abbiano scritta apposta per noi. Anche quel graffito sul muretto.
Mi è concesso pensare che quell’Uomo sia morto apposta per me.

Fossi ladro, ruberei quella nostra Croce.
Girerei il mondo intero con quel volto appresso al mio.

(da M. Pozza, L’iradiddìo, San Paolo 2017)

Buona settimana!

iradiddio

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