RobertoBaggio

A posteriori, ammetto ch’è valsa più quella notte di tante catechesi, più o meno ortodosse, alle quali son stato costretto da seminarista. Fu notte di sport, di veglia, da batticuore: finale dei Mondiali USA 1994. La partita che c’era in tutti i videogiochi: Italia-Brasile. Quella domenica, a pochi metri dalla gloria, nell’Italia di Arrigo Sacchi c’era lui: Roberto Baggio, il divin-codino. Quello che, parola di Lucio Dalla, «a vederlo giocare ci si sente bambini. È l’impossibile che diventa possibile. Una nevicata che viene giù da una porta aperta del cielo». Un calciatore? No, molto più che un calciatore: l’uomo – come tributò quel burbero di Carlo Mazzone – era sempre più grande del calciatore: “Palla a Baggio, palla in banca”. Palla al centro. Nonostante le ginocchia fragili tenute cucite da ferri e passione, raffreddate dal ghiaccio sul finire di ogni partita, coccolate come il più geloso degli attrezzi. Aggrappato a quelle ginocchia, tutto poteva di ciò che voleva. Che s’immaginava. La specialità: scatto-dribbling-conclusione. Eppoi la magia di quelle punizioni pennellate con un’arte degna di Raffaello, la freddezza glaciale di fronte alla porta: la rete gonfiata. Lo stadio in delirio: “Bag-gio, Bag-gio, Bag-gio”. L’uomo che fece di una passione il suo mestiere, di un pallone il pentagramma per infiammare i cuori. Piccolo diavolo, piccolo principe: Baggio.
L’uomo di quella notte mondiale. Della sconfitta-mondiale, notte passata alla storia più per il suo rigore fallito che per la coppa alzata dal Brasile. Il bello, però, doveva ancora venire, per un uomo che tanto somiglia all’araba fenice: “Post facta resurgo” (“Dopo la morte mi rialzo). L’incantesimo, infatti, capitò poco dopo, come il rombo del tuono succede al guizzo fulmineo della luce. Il capitano entrò in sala stampa con le lacrime agli occhi, l’orgoglio nel cuore: “I rigori li sbagliano soltanto coloro che hanno il coraggio di batterli”. Se ne uscì così, con la più spontanea delle affermazioni, la più lucida delle spavalderie: da fuoriclasse del pallone, del pensiero, dell’umano. Sbaglia chi rischia, si ferisce chi combatte, perde chi rischia di vincere: diventa uomo chi ha il coraggio di alzarsi. Che era come dire: “Ho sbagliato, mi dispiace. Ma ci stava nel calcolo delle probabilità”. In un calcio che ha bisogno di marionette per fare spettacolo – dove l’estetica del fisico sembra valere più dell’estetica del gioco -, Baggio era l’eccezione che conferma la regola: nel campo s’incontrano tanti personaggi, pochissimi uomini. Come nella vita, forse.
Ieri Baggio ha compiuto cinquant’anni. Dal calcio se n’è andato anni fa: il suo mondo è sempre stato più vasto del campo. La famiglia, lo sport, la caccia, la sua pratica di fede buddista. Pochi calciatori possono vantare, tra medaglie e trofei, il titolo “Uomo di Pace”. Il grande Pelè, di Roberto Baggio, disse che era un brasiliano nato per sbaglio in Europa. Forse ha ragione, o forse no: Baggio è stato semplicemente un uomo che, intestardendosi a perfezionare il talento, ha scoperto che, carezzando il pallone poteva divertirsi, far divertire, ammaestrare sul piacere: di vivere, di migliorarsi, d’accettarsi fragili nelle ginocchia come nei rigori sbagliati. Per Trapattoni, poteva fare di più: «Baggio è un pozzo di petrolio dal quale è stato estratto un po’ di greggio». Non penso che potesse fare di più: anche quella fu una scelta-di-campo. Aveva scelto di abitare un mondo in cui il calcio non fosse tutto, il pallone rimanesse pallone, la sfida-contro-tutti, mister compresi, si chiudesse al novantesimo. Ha fatto tutto ciò che poteva fare in un campo, con la convinzione che la sua storia andasse oltre, continuasse anche dopo. E’ solo per questo che a cinquant’anni, senza più calcio-giocato, basta nominarlo per vedere brillare gli occhi. Per aver fatto di un rigore-sbagliato una delle più affascinanti lezioni di etica: calcolare lo sbaglio renderebbe più umani.

(da Il Mattino di Padova, 19 febbraio 2017)

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