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Nessuna madre dovrebbe sopravvivere alla morte del figlio: lo strazio di chi, dopo aver dato la vita, se ne torna dal cimitero senza più vita, procura vertigini solo a pensarla. Paiono i giorni di Montale: «Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato». Michele: «Ho vissuto (male) per trent’anni», ha lasciato scritto nella lettera prima di suicidarsi. Il male di vivere scritto a chiare lettere, come traccia di una vita non-più-vita. Di fronte al dolore di una madre, di un cuore ferito non rimane che inginocchiarsi: ogni risposta parrebbe un insulto al buon senso. Ciò che di umano resta, fiamma di bellezza nei ghiacci infernali, è abitare in compagnia il silenzio. Attraversare, tenendosi la mano, un’attesa la cui sola risposta è l’accettare la visita di una domanda: “Che ci faccio quaggiù?”
Il male di vivere strozza, incartoccia, fa stramazzare. Eppure quella lettera dice dell’altro. Narra di un qualcosa che inquieta, di un animo già spentosi ancor prima del gesto: «Sono stufo». Per dieci volte lo scrive, quasi a voler martellare con quella fiacca chi, un giorno, tenterà una ripartenza. Stufo di tutto, persino di porsi domande: «Le domande non finiscono mai, di sentirne sono stufo». È un ultimo grido strozzato: «Tutte balle». La vita? Una colossale balla. Chissà se quand’era vivo, magari chino sui banchi di scuola, avrà confuso il sogno con l’illusione. L’illusione: “Il mondo saprà farmi trovare il lavoro dei miei sogni?” Il sogno, quello che tiene legato alla terra: “Quanti posti di lavoro saprò creare col mio ingegno?” Tra il sogno e l’illusione, abita tutto il male-di-vivere: «Da questa realtà non si può pretendere niente». Che, a ben pensarci, è il guadagno che rende appassionante l’esistenza: a cambiarmi non è la realtà, dunque ho la grande occasione di poterla cambiare io la realtà. Per non firmare anzitempo la resa: «Il futuro sarà un disastro: non voglio assistere, nemmeno partecipare». Forse è fin troppo facile scendere in campo per giocarsi solo le partite che si è già sicuri di vincere, quelle che altri hanno già giocato lasciando a noi l’onore di andare a ritirare il trofeo. Pochi avranno in dote la fortuna di un lavoro che è esattamente il sogno coltivato: i più – che poi sono stati quelli che han fatto fare un passo avanti – hanno mostrato di amare ciò che sono stati costretti a vivere. Ciò che la vita ha fatto trovare: la scuola non insegna la velocità, ammaestra alla resistenza. All’allenamento per farsi trovare pronti ai cambiamenti: come un equilibrista che fa del bilico un’arte. Stupore.
Conosco un padre, il mio, che a quarant’anni s’è trovato senza lavoro, con una famiglia sulle spalle. Ha imparato ad amare un lavoro che non gli piaceva: lì ho intravisto il suo eroismo. Conosco madri che negli ospedali, di fronte ad un bambino roso dal cancro, s’improvvisano leonesse: non sognavano quel posto-nel-mondo, ma dimostrano d’abitarlo da regine. Ci sono preti che sognavano tutt’altri scenari in cui giocarsi la vita: stanno diventando santi abitando gli scogli nei quali Dio li ha gettati, come ostriche allo sbaraglio. Eroi del bilico: su barconi di carta, in case di cartone, vite-di-mezzo, manovali del sottosuolo. Quelli per i quali il mondo non ha posto, se lo trovano loro: «Non ci sono le condizioni per impormi, non ho i poteri o i mezzi per crearle». Dico grazie a chi mi ha mostrato coi fatti e le cicatrici che il nulla è necessario alla creazione. Che per fare ordine è prima necessario fare disordine: «Dentro di me non c’era caos, c’era ordine». Rivendico il lusso del disordine, dal quale germoglia la passione dell’ordine.
Una lettera, il male-di-vivere. Nessuna morte merita la gogna del giudizio. Della lettera, fatto salvo il dolore, rispedisco al mittente tutto. M’appoggio sulla fragilità di un indizio: «Buona fortuna a chi se la sente d’affrontarlo (il futuro)». Lo sento mio: non sognavo questo mondo ma, amandolo, m’incuriosisce assai.

(da Il Mattino di Padova, 12 febbraio 2017)

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