C’è una cosa che accomuna tutti: l’impossibilità che ci è data di decidere se morire o non-morire. E’ vero che qualcuno decide da sé di morire anzitempo, altri s’accaniscono nella vita di quaggiù: tutti, però, dovranno confrontarsi con lo scacco-matto della fine. Non ci è dato scegliere tra la finitezza e l’immortalità: ci è però concesso, qualora lo desideriamo, scegliere “come” morire. Padre René Wayne Robert, francescano che lavorava nelle carceri della Florida dal 1980, volle diventare anzitempo protagonista della sua morte: «Non condannate a morte il colpevole del mio omicidio» fu il testamento consegnato vent’anni prima della morte ad un notaio. Della strada – abitata di gente assassina, sradicata, violenta – aveva fatto il suo salotto. Lo animava la grande sete che brucia nel cuore dell’avventuriere: incidere nella carne della realtà. Fu profeta anzitempo del perdono: «Chiedo che la persona trovata colpevole del mio omicidio non sia condannata a morte». Altri scelsero per lui la data della sua morte: lui, da parte sua, scelse come morire. Da protagonista, fino in fondo.
A lavorare col fango capita che prima o poi ci si infanghi: è una legge che chi educa nei bassifondi calcola ogni primo mattino. Assieme all’altra, la prima-conseguenza: nessun educatore sarà mai tale se prima non si sarà lasciato ferire. Guaritori-feriti li chiama sottotraccia il vangelo: peccatori-perdonati è ciò che gli evangelisti mai disdegnano di annotare a chiare lettere. Il padre Robert venne trovato morto alcuni giorni dopo la scomparsa. Ad ammazzarlo è stato Steven Murray, 28 anni, uno di quelli che erano appena usciti dalla prigione: «Avevo problemi mentali, ho perso il controllo» dirà. Proprio come previsto da Robert: i santi, al pari dei geni, divengono tali perchè riescono ad intravedere quello che accadrà prima che diventi di dominio pubblico, alla portata di tutti. Ciò che resta, perduta la vita, è il fascino dell’amore: l’esatto contrario del caos. Chi riesce nel tentativo di lasciarsi segregare da esso, racconta che dopo il suo passaggio la storia non sarà più quella di prima: esisterà solamente un prima e un dopo. E’ la storia di chi ama gli altri fino a mandare in oblio la propria storia: «Un umile e generoso servo del Signore, che ha condiviso i suoi molti doni con i poveri, la comunità dei sordi, i carcerati – ha detto nell’omelia il vescovo -. Sarà ricordato per la sua bontà e il suo amore senza fine per loro». Mica una cosa da poco per chi ha scelto da sé “come” morire: padrone fino all’ultimo della libertà.
Il paese dei disadattati è sempre in bilico tra grandezza e miseria, stizza e simpatia. O è un letamaio o è un giardino, inselvatichito. A saperci fare, sotto ad entrambi c’è sempre terra-buona: occorre scavare, vangare, sopportare. Metter in conto pure di sporcarsi. Il guadagno pare immane a sentire coloro che vanno a bersaglio: alzarsi la mattina mettendo in conto di poter sbagliare rende liberi di viversi da protagonisti. D’intravedere un qualcosa di fronte al quale anche la propria vita assume un valore minore: la capacità di annullarsi per vedere l’altro crescere, rialzarsi, rimettersi in gioco. E’ la storia della bontà, quella che non è solo proprietà-privata dei cristiani ma il cuore pulsante di chi scrive la storia: «La bontà senza tanti discorsi, senza dottrine, senza sistema, il semplice gesto di un essere a favore di un altro essere, al di là e al di qua delle generalizzazioni e delle astrazioni: la bontà immune dall’ideologia del bene sociale» racconta Ikonnikov nel celebre romanzo Vita e destino di Vasilij Grossman. Una bontà che non è mai un fatto sociale, un’utopia collettiva, una sommossa popolare: è il bene piccolo, il più delle volte incomprensibile, di chi ha intuito che fare il bene è prima di tutto il modo più svelto per stare-bene. E, stando bene, fare star bene gli altri. Quelli che qualcuno è capace di perdonare ancor prima che sbaglino.
(da Il Mattino di Padova, 5 febbraio 2017)