Con l’eucaristia celebrata ad Emmaus, qualche settimana fa abbiamo concluso il pellegrinaggio in Terra Santa. Celebrare l’eucaristia in quel paese è percepire sulla pelle la sensualità assaporata da quei due viandanti la sera della prima Pasqua cristiana: «Resta con noi, perchè si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). Il Vangelo produce un suono diverso a seconda di dove lo si legge: l’acqua di sorgente rimane sempre la più fresca. Nel gruppo – gente appassionatasi, nel tempo, al sapore della teologia – c’era anche lei: una donna. Una donna con tutta la sua storia. La Terra nella quale ha vissuto Cristo è una terra che attira come una calamita: a pensarci per più di due attimi-di-fila, quasi spaventa l’idea di poggiare i piedi laddove Cristo li ha poggiati secoli addietro. Alla quiete monastica di Emmaus siamo giunti partendo dal paese di Nazareth, attraversando la Galilea, inoltrandoci nel deserto, risciacquando il nostro battesimo nel Giordano. Per approdare a Betlemme, terra-del-Pane, e fare rotta verso Gerusalemme: terra di amori folli, di passioni funeste, di una Risurrezione inaspettata. Poi, prima dell’imbarco, Emmaus: «A chi di noi l’albergo d’Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada, una sera che tutto pareva perduto?» (F. Mauriac). Lei, quella donna, sempre in nostra compagnia.
A qualcuno della comitiva confidò quel cruccio che le albergava nel cuore: la storia di un amore fratturato, la sorpresa di un nuovo incontro, il cuore che le torna a battere. “La sua situazione è irregolare, signora. Non può più accostarsi ai sacramenti”: una frase ripetutale ad ogni confessionale, un amore rinfacciato ad ogni navata, una memoria rivangata. Una desolazione nel cuore. Alla messa se ne stava acquartierata in sé, nella tempesta di mille pensieri: “Signore, che ci faccio qui?” Non in un altro posto, esattamente qui: nel paese di Maddalena, di Zaccheo, delle pubblicane e delle prostitute. Nel paese-della-miseria scelto da Dio perchè la gente imparasse che Dio abita nelle sue creature. A peregrinare nelle strade che han visto Cristo pellegrino, la scoperta è sulla punta del naso: nel Gesù che meno brilla, proprio lì Gesù è sempre più brillante. Vedeva gli altri accostarsi alla comunione, condivideva la fatica di credere ancora, non taceva la nostalgia di re-incontrare il Cristo nell’eucaristia. Chi non sapeva la sua storia, non s’accorgeva di nulla. In realtà lei voleva il suo Cristo: «Ogni uomo dovrebbe sentirsi almeno una volta come un tabernacolo vuoto: in grado di contenere quanto vi è di meglio, eppure privato di ciò che si ama ed è sacro» (P. D’Ors). Il fatto è che non poteva: “La sua situazione è irregolare, signora”. Punto.
Ad Emmaus, al momento della comunione, sull’altare lascio per un po’ il Pane esposto: la chiesa è una locanda, i fedeli sono viandanti come allora, il Pane è il medesimo. Quella volta lo riconobbero, anche stavolta accadrà: ne sono certo. Ci siamo concessi il lusso del silenzio prima di accostarci alla comunione: “Tra le macerie della vita – suggerisco – raccogliete la più aspra: quella nella quale Dio vi è sembrato assente. Quando l’avete individuata, accostatevi alla comunione” Mezz’ora è durata la comunione: avere tempo per stare con Cristo è un lusso da signori, il lusso dei poveri. Per ultima si alza lei: attraversa la navata, avverte la lama di qualche sguardo – “Non potrebbe!” -, s’avvicina all’altare. Poi, volto devoto come nelle grandi manovre, appoggia le mani sul Pane. E affida al bisbiglìo di poche parole la più tenera delle catechesi mai udite: “Mi hanno detto che non posso mangiarti, però son venuta a toccarti: ho bisogno di sapere che, comunque, ci sei”. Un minuto d’amore rispettoso, poi ritorna al suo posto. Quelle mani di donna posate sul Pane-nudo sono state il mio pellegrinaggio: nessun tabernacolo si apprezza se prima non è stato vuoto.
(da Il Mattino di Padova, 15 gennaio 2017)