“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa.”
Gongolò un po’, Simone il pescatore, divenuto roccia tra lo stupore degli altri apostoli.
Difficile, se non impossibile, non cedere per alcuni istanti alla gioia di sentirsi un “di più” tra i suoi compagni. Lui, misero pescatore – un tutt’uno con il legno di barca ed acqua di lago e notti di silenzi e reti vuote – fu chiamato “pietra” e di quelle importanti. Mica un sassolino tra mille.
Il canto del gallo fu lo scoglio contro cui s’infranse un’umanità con ancora troppi punti interrogativi e pochi punti fermi, una punteggiatura scoordinata che necessitava di correzione. Ma non con la penna rossa o con la temutissima matita blu. Quelle sono capaci di usarle tutti. La Misericordia ci andò giù pesante, servendosi di una triplice negazione proclamata per umana debolezza, scritta nero su bianco e ricordata ancor oggi, dopo più di venti secoli.
Pietro ebbe il fegato di rinnegare il Maestro e quello stesso Maestro, al contrario di ogni umano buonsenso, non lo rinnegò mai né ritirò il primato che gli aveva donato. Una esemplare dimostrazione di come l’umanità che piace alla Misericordia non sia esclusivamente quella che procede spedita senza barcollare, ma che anzi tocca il fondo per poi risalire, cade rovinosamente solo per rialzarsi più convinta di prima.
“Simone di Giona, mi ami tu?”
Sì sì ed ancora sì. Per tre volte, con il cuore a mille e le mani che tremano, negli occhi il vivo ricordo dello sguardo del Maestro che si posa sull’apostolo che rinnega, nelle orecchie il canto di un gallo a ridestare una coscienza impaurita. Sulle labbra il sapore di lacrime amare che scendono e non ne vogliono sapere di arrestarsi, mentre i singulti scuotono ogni angolo di cuore.
Pietro, la roccia, si forgia.
Passa sotto lo scalpello degli eventi e della forza di volontà.
Perfino il diamante più prezioso e bello del mondo per essere tale deve essere affidato alle mani esperte di colui che lo taglia e gli dona vivo splendore.
C’è della grandezza inusuale in chi finisce a terra ed impara a rialzarsi, in chi viene sconfitto dalle circostanze ma apprende a non commettere più il medesimo errore. O in chi viene abbattuto dalla vita, ma trova il modo di tornare a giocare a braccio di ferro con essa e mettercela tutta per vincere.
L’eccezionalità insita nell’umanità più pura è uno dei più bei regali della Misericordia.
Ma non è un dono fatto con il contagocce a pochi fortunati eletti, bensì è sparso a pioggia, come i raggi del sole che inondano di luce una vallata, come un profumo che si effonde nell’aria senza riserve, perché è per tutti, nessuno escluso.
E rifiutarsi di vederla negli altri e in se stessi, criticarla, sminuirla, farsi beffe di essa, è invece un inno alla mediocrità che richiama troppo spesso la celebre favola de La volpe e l’uva, è un occhieggiare al volo di Icaro con la malcelata speranza che qualcosa vada storto, perché mal si sopporta quel folle coraggio che osa contro ogni regola del quieto buonsenso.
I traguardi degli altri non sono vittorie da festeggiare, ma eventi da denigrare sempre e comunque, a meno di non trarne qualche vantaggio personale.
Mediocrità non fa rima con normalità, per l’appunto. Mediocrità è più un modo di pensare, che un obiettivo raggiunto o non raggiunto: è un puntare al ribasso sempre e comunque, un aggirare gli ostacoli. Una bolla di sicurezza in cui rinchiudersi, mentre si osserva con disprezzo chi si lascia spuntare le ali ed osa puntare lo sguardo più avanti ed alzare l’asticella delle proprie aspettative.
Non è volersi bene, piuttosto è il contrario, è rigettare il dono della Misericordia, coprire i colori sgargianti della vita propria ed altrui con il grigio monotono che appiattisce e smorza ogni entusiasmo.
La normalità, invece, è quel quotidiano che si mischia con il lievito dell’eccezionalità che viene dato in dotazione ad ognuno di noi, nessuno escluso.
È quel panettiere che magari non sarà mai incoronato star di Master Chef, ma che si alza ogni notte con solerzia e sforna leccornie che le nonne portano ai nipoti all’uscita di scuola.
È quell’impiegato d’ufficio che forse non diventerà mai manager, ma che non perde la pazienza dinanzi ad un anziano in difficoltà con la compilazione di un modulo.
È quella persona che probabilmente non si trasformerà in un supereroe dei fumetti, ma che saprà amare se stesso e gli altri senza riserve, con gesti piccoli e semplici, come un posto a sedere ceduto a chi è più stanco, come un “buongiorno” regalato con educazione.
Sei tu che leggi queste parole, “perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo” (Isaia 43,4), e ricordati di non dimenticarle mai.
Dedicato a Beatrice “Bebe” Vio, piccola grande donna, eccezionale, che non conosce il significato della parola “impossibile”.