Li ha presi per mano – loro che sono gli specchi rotti della società – e ha tentato di ricomporne i frammenti, cercando le ragioni di quelle rotture, brutture. Per tentare di farli uscire da quella lunga notte nella quale le storie appaiono tutte buie, finte, mute. «E’ morta Biki» è stata la notizia che radio-carcere ha mandato in onda in tempo-reale. Dove Biki – come l’avevano simpaticamente ribattezzata i suoi “lupi” – corrisponde al nome di BiancaMaria, il volto storico del volontariato nelle carceri di Padova. Una donna per la quale la galera non era un magazzino nel quale confinare uomini tra loro omologati, ma un’esperienza da vivere guardandola nel volto: è per questo che molti, dietro le sbarre, non si vergognavano di chiamarla mamma. Perchè la sua vita è stata un affronto alla legge-della-probabilità: di gente ch’era da sempre in mezzo ai guai, diceva che nei guai avrebbero anche potuto non finirci più. Un ragionamento da madre.
Da queste parti i poveri-cristi la ricordano con i soliti-strumenti in mano, gli arnesi semplici delle donne salvavita: un paio di mutande per ritrovare la dignità perduta, un quaderno nel quale gli scarabocchi erano storie e volti, il suo sorriso che striava con il grigiore del ferro-e-cemento. Gli uomini che andava a stanare nelle celle-caverne, erano i peggiori avanzi che la società civile aveva portato in quell’isola ecologica che è il carcere: «Sembravano le anime in pena assiepate agli spiragli del purgatorio che si affacciano sull’inferno» (V. Hugo). Quando per tanti altri il gioco si faceva duro, era allora che a lei iniziava a piacere. Fino a fare di parecchi uomini-banditi la sua personale scommessa: «Un giorno si rialzeranno. Vedrai, don Marco: sarà bellissimo vederli camminare da soli» mi diceva spesso quando, guardandola china su gente incarcerata per omicidio, rapina, commercio di refurtiva, stupro, la provocavo: «Biki, sicura che ne valga-la-pena?» Il suo eroismo – se c’è stato, e c’è stato – è tutto qui: aver fatto d’una cella di galera il suo punto di osservazione sul mondo. Aver condotto fin qua dentro, nel ventre del male, la più alta forma di ferocia che Dio abbia concesso alla donna: la maternità. Nessuna donna nasce madre, lo diventa assieme al figlio: nascono assieme quelle due creature che nessun disastro riuscirà mai a separare. In caso di rottura, poi, le madri sapranno intervenire: per aggiustare, fare dei rammendi, ricreare. Ridare-vita ai senza-vita, a chi ha tolto la vita: ecco perchè, in questa landa solitaria, per tanti è stata una mamma. Anche per uomini che, in tempi passati, non han prestato ascolto alle loro. Perchè essere madre non è solo dare la luce agli infanti, ma anche riportare alla luce i dispersi, rimettere in piedi i caduti. Il potere di queste maternità intimidisce tutti i carnefici.
In carcere, ogni quarto d’ora che passa, s’invecchia di un anno. Ciò che non invecchia – al contrario, ringiovanisce – è il desiderio, ch’è quasi di tutti, di rinascere differenti: «Salutandomi, mi ha detto “signore”» è stata la confidenza straziante di un vecchio omicida parlandomi di lei. Scorgere, dentro il marciume di un delitto, il tesoro prezioso della dignità è la perla rara dell’umanità. Un’unica cosa l’inorridiva: l’approfittarsi di chi, ristretto, non aveva diritto al contraddittorio. Per questo, durante la stagione della detenzione, volle che la scuola fosse per tutti. Una follia, giacchè in carcere l’intelligenza dei detenuti è ostacolo ad una certa concezione di recupero, lo strumento-primo per chi ha voglia di ripigliarsi, il pretesto per fare di una patria galera una sala-parto per uomini già cresciuti.
A governare i detenuti con la paura son capaci tutti. Governarli con la gioia è affare di pochi: occorre metterci il cuore in questa strana faccenda. Il cuore di Biki, la “mamma” che un brutto-male ha portato via ai poveri-cristi della galera di Padova. Una mamma-giusta, di quella giustizia che i poveri chiamano amore.
(da Il Mattino di Padova, 23 ottobre 2016)