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“Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo”.
L’incipit di questo Vangelo lascia sempre in bocca un sapore particolare, agli occhi ed alle orecchie di noi viziati cittadini, troppo spesso relegati lontano da questi odori e colori. Ci riportano ad una sapienza, tutta contadina, capace di saper leggere, nel “libro della natura” caro a Galilei, i tempi e i modi del raccolto, della fioritura, l’andamento ciclico delle stagioni e dell’uomo che, nel seguirle, ritrova la bellezza del cambiare, rimanendo uguali a se stessi.
Tuttavia, è interessante ricordare quale sia invece il contesto in cui si muove il Nazareno. Da noi a Milano si dice “Ofelè fa el to mesté!” [«Pasticciere, fai il tuo lavoro – sottinteso: e non pensare a quello degli altri! -»], che, nelle strade della Palestina, avrebbe potuto suonare come «Falegname, fa’ il tuo mestiere!». Come osa quel Gesù, figlio di Giuseppe il carpentiere, pontificare sulle piante, sui campi, sui pesci e sulle barche? Ai nostri occhi, sembra un gesto di vicinanza a quella gente umile di Galilea: presentare loro il Regno di Dio secondo topoi a loro vicini, cioè, nel loro caso, il linguaggio di agricoltori e pescatori. Ma non ci vuole molta fantasia per ipotizzare che la brava gente di Galilea non dovesse essere troppo entusiasta di queste “invasioni di campo”, come non lo è nessun lavoratore quando vede i non addetti intromettersi, senza essere invitati, in campi differenti dai propri.

 

Forse, proprio per questo, qualche verso più avanti, Cristo sembra “raddrizzare” il tiro, mettendosi a parlare dell’arte del costruire, molto più vicina all’arte della carpenteria, appresa sin dalla più tenera età nella casa paterna. Del resto, la sua famiglia non l’aveva forse fondata con una donna così affidabile da essere stata scelta da Dio per un compito unico al mondo?
Ecco quindi che, dopo aver parlato con una metafora così chiara agli occhi non solo di qualunque contadino, ma anche di tutti noi, passa ad una metafora edilizia: l’importanza del posto in cui si affondano le radici, di una casa, come della vita. Più il terreno è profondo, più le radici possono sviluppare e consentire la crescita armoniosa della pianta: così è per l’uomo, che è favorito in una crescita di bene se trova intorno a sé incoraggiamento in quella direzione.
Nel complesso, l’invito è alla capacità di saper imparare, anche da chi non ti aspetti. Anche da chi pensi non abbia il diritto di insegnarti nulla.
Per essere credenti, dobbiamo essere credibili: quindi la prima testimonianza arriverà tramite i fatti concreti, che a volte sono davvero piccole cose (una delicatezza, un’attenzione gentile, un gesto gratuito, l’impegno a perdonare le piccole facezie quotidiane che ci “avvelenano l’esistenza…). «Predicate sempre il Vangelo, e se fosse necessario anche con le parole» diceva san Francesco ai suoi. Dal canto suo, però, Gesù, invece di porsi a sostegno, si propone in modo duplice, come “pietra d’inciampo” (scandalo) e “testata d’angolo”. È interessante notare come, nell’antichità, tale nome (skàndalon) indicava quella pietra nel selciato che, sporgendo sulle altre era d’ostacolo, in quanto era facilmente motivo d’inciampo. D’altro canto, la pietra angolare era quella fondamentale. La presenza di Cristo è imprescindibile sostegno, ma non per questo le sue richieste sono meno esigenti: anzi, esse sono in grado di mettere in difficoltà anche i meglio intenzionati!

 

[Cfr. Lc 6, 43 – 48, Domenica della Dedicazione del Duomo di Milano]

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