Grappoli d’uva ad acchiappare l’ultimo sole. L’annuncio che la vendemmia è ormai alle porte è uno spaventapasseri che il contadino infila tra i filari: che il merlo e la cornacchia facciano bene i conti prima d’intestardirsi nelle imboscate.Le vecchie donne sono già tra le viti, iniziano a rincasare carretti con promesse di vino, s’allietano gli agricoli che stanno sull’uscio di casa: tintinnano i bicchieri al bancone dell’oste. E’ tempo di celebrare la vendemmia: piangono le malghe per il ritorno degli armenti a valle, gioiscono i tini per i grappoli-a-cesti. Profumi e attese, potature e rinforzi, tagli e innesti, trattamenti e passione: tutto il resto è faccenda della natura che, complice o maligna, segnerà il destino di un’intera stagione, di un’annata. E’ un’antica liturgia vendemmiare: di filare in filare, a far cadere nelle ceste i grappoli. Dalle ceste nelle cassette, che andranno a finire trainate dal carro. Poi, all’ora del tramonto, tutti a casa, per mettere l’uva dentro la tinozza. Sentendosi narrare, magari dalla gente più avanti d’età, squarci delle vendemmie passate, nelle quali l’uva, pigiata coi piedi nudi, veniva mostata: «Prema co ‘l piè gagliardo un giovinetto, entro il tino di quercia, le capaci sacca ricolme d’uva succulenta; ed all’urto gli scorra il mosto in rivi» (G. D’Annunzio).
Pare solo vendemmia, ma dietro un bicchiere di vino è nascosta la storia d’amore tra il sole e la luna. All’inizio della stagione si frequentavano come degli estranei. Lui regnava in alto: solenne, brillante, superbo. Lei, a quel tempo, non era ancora uva: era una semplice gemma, una punta minuscola di verde, un nonnulla appena sotto la foglia patinata. Col trascorrere delle stagioni si sono guardati, anche cercati: parlati. Il sole ha iniziato a riscaldarla, lei ha iniziato ad arrossire; lui l’andava a cercare tra i tralci, lei faceva capolino per prendersi la luce. Lui s’interessò di lei, lei s’interessò di lui: il calore del sole, il verde acerbo dell’uva. Assieme sono diventati grappoli, appesi ai tralci che sono tesi come corde di violino, modellati dai fili di ferro, attaccati alle pergole esposte al sole. Il contadino – era ancora inverno quando incominciò a potare le sue viti, le scarpe affondavano nel fango – spesso ha guardato il cielo per preservarsi dalla furia della tempesta, per assicurarsi un agosto di belle giornate. Sa bene, lui, che il destino dell’uva è tutta una faccenda di calore: che tocca, riscalda, illumina. Tra settembre e ottobre, poi, l’uva si farà cogliere, si lascerà bere, si sentirà gustare.
Il sole, d’aprile a settembre, l’ha portata a maturazione: senza toccarla, solo guardandola e riscaldandola. Forse anche l’uomo, un giorno, imparerà lo stile-del-sole: farà maturare la bellezza d’un corpo senza graffiarne la dignità, convivrà col fratello poggiandosi all’urto delle parole più che alla prestanza delle mani. Ci sono cose, infatti, che per maturare chiedono di non essere toccate da mani: sono le cose più delicate, pregiate. Essenze quasi-spirituali: la bellezza, l’ingenuità, lo stupore, la chiarezza, la freschezza d’un corpo, l’armonia del linguaggio, i battiti del cuore, l’alfabeto dell’anima. Sono le faccende primordiali, le più difficoltose da far maturare perchè chiedono d’essere accese senz’essere costrette: sono occhi che guardano lasciando liberi, mani che stringono senza frenare, amori che avvolgono senz’incarcerare. Come grappoli maturati alla luce del sole: senza toccarla è rimasto così vicino all’uva da farla abbronzare come un corpo di femmina gagliarda sdraiata in riva al mare.
Al mio paese, ancor oggi, la vendemmia è il saluto dell’estate. Sono giorni d’incantesimo, quasi-liturgia: «Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa più, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi» (C. Pavese). I giorni del sole e dell’uva: un’umile lezione su quest’antica faccenda chiamata amore.
(da Il Mattino di Padova, 9 ottobre 2016)