Non è gran-cosa l’amicizia: piuttosto è un milione di piccole cose. Dove gli amici sono come le pareti della casa: a volte ci si appoggia su di loro, altre volte basta anche solo sapere che ci sono per vivere meno impauriti. Appena giunta notizia del suo licenziamento – per una causa giusta o ingiusta l’evangelista, ch’è un gran narratore, non lo dice – l’uomo della storia di questa domenica prende il denaro, quello che amministra per conto terzi, e lo usa per farsi amici i debitori del suo padrone. La situazione che gli si profila innanzi gli incute angoscia: «Che cosa farò, ora, che il mio padrone mi toglie l’amministrazione?» (liturgia della XXV^ domenica del tempo ordinario). Si fa forza, si guarda allo specchio, mette ordine a ciò che gli è rimasto in tasca. E’ poca roba, insufficiente per campare tutto il resto della sua vita: «Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno». S’avvale della sua scaltrezza per assicurarsi un piatto di minestra domattina: «So io che cosa farò perchè, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua». Il suo padrone è inamovibile nella decisione? Che importa. S’inventa una nuova clientela: «L’antidoto contro cinquanta nemici è un amico» era convinto Aristotele. Decide, da gran-genio qual’è, di puntare tutto sull’amicizia: sull’immateriale, lui che in azienda era l’uomo della materialità. Dei soldi, dunque, che sono anche la materia-prima della bestialità. Dell’ingiusta ricchezza.
Chiama al rapporto tutti coloro che sa essere debitori del suo padrone e, finchè è ancora in suo potere di farlo, ne trasfigura l’intera loro fisionomia: «Alcune persone si rifugiano in chiesa; altre nella poesia; io nei miei amici» (W. Woolf). Li vede entrare che sono degli umani schiacciati dal peso d’un grosso debito, li aiuta ad uscire che sono mezzi-sistemati – loro e l’intera loro famiglia – per la stagione. Tramutare la destinazione d’uso d’una situazione, nei Vangeli, è la manovra più amica, la più antica: gli amici son quelli che ti aiutano a rialzarti quando le altre persone neanche sapevano ch’eri caduto. Sprofondato: «La nostra grande colpa come cristiani – scrive don Primo Mazzolari nella sua opera Il compagno Cristo. Il Vangelo del reduce – non è che dopo duemila anni ci siano ancora dei poveri, ma che sia umiliante e vergognoso fare il povero in terra cristiana, e che qualche forma della nostra carità ne abbia ribadito la vergogna». E’ lo spettacolo che il Vangelo assicura essere il più ricco d’intrigo: la contemplazione di un’anima che, caduta per terra, si rialza e torna a camminare. Entrano indebitati fin sopra i capelli, escono con la schiena gobba dalla troppa gioia: cinquanta barili d’olio a uno, ottanta misure di grano all’altro. Servo degli amici, non più schiavo del denaro. Ecco perchè Cristo, Lui ch’è sempre capace d’andare a stanare il positivo, di getto diventa malinconico: «I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce (…) Fatevi degli amici con la disonesta ricchezza, perchè, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne». Pare proprio che Cristo, come il titolare di quella ditta, abbia fatto la sua scelta e non sia disposto a mercanteggiare, costi quel che costi: nessuno varcherà la porta-santa del Cielo senza la raccomandazione di un povero. I discepoli «come riusciranno a cavare il bene dal male senza fare peccato, a essere candidi e furbi nello stesso tempo?» (L. Santucci)
I benestanti – quelli che, quando s’accorsero che il gioco-di-Cristo era pericoloso, han preso i comandamenti e li han restaurati per gli altri – diranno oggi che Cristo ha esagerato, che s’è spinto un po’ troppo oltre il buon senso. Han capito nulla, neanche stavolta: di quell’amministratore-cacciato non lodò affatto la disonestà, ma ne prese la scaltrezza e la mise in cattedra. La ricchezza, in fin dei conti, è disonestà visto che Dio creò l’uomo, non il ricco e il povero: non è colpa del buon-Dio se invece d’allargare i granai abbiamo allargato i cimiteri; di moltiplicare il pane, abbiam moltiplicato il piombo. L’uomo ha molti corteggiatori e pochi amici: trattarlo bene, costa immensamente di più che parlarne bene. Coi profughi, con i cassintegrati, con i galeotti delle patrie galere: «Per molti, la scoperta della miseria dell’uomo è pretesto di sfruttamento e di dominio. Qualcuno anzi la prepara, la provoca. Per guadagnarsi il titolo di benefattori, per farsi pagare il servizio di recupero, lo buttano a terra e lo fanno a pezzi, l’uomo» (P. Mazzolari).
Cristo, insomma, ha troppa stima dell’uomo: per questo gli parla da uomo, con franchezza. L’altra furberia, la faccia peggiore della furbizia, rimane una forma d’intelligenza marcia.