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C’é un banchetto appena concluso, lo scatto del Maestro é celere nell’alzarsi da tavola per continuare il suo cammino verso Gerusalemme: da quella mensa portò via con sé molti cuori ed un mucchio di sale. Tra scandali e consensi, i lineamenti di ciascun invitato si sgretolarono dentro una massa di gente che prese a seguitarlo. Una folla innumerevole lo seguì fin dentro la sinagoga preferita del Maestro: la strada. Ciò che muove i piedi della folla dietro ai suoi, forse, é l’esigenza di far due passi per digerire il peso ingombrante di certe parole, metabolizzarne la grammatica, assorbirne nel proprio ventre l’impatto; o forse é solo mera curiositá, sciatta abitudine, convenzionalismo. Per questo Lui, che va avanti, si volta: per ciò che annuncerà e per ciò che opererá è necessario che Egli preceda, che venga prima. Anche in Galilea – dopo i fatidici tre giorni – risorgendo, venne prima. Prima della definitiva vittoria della morte sul mondo e su ciascun uomo. «Che cosa é l’uomo perché te ne ricordi?» (Sal 8, 5) Impastato col lievito degli angeli e progettato per essere torre, edificio spirituale pensato per ergersi in alto, plasmato nella terra perché potesse anelare al Cielo, ogni uomo tra la folla, per il Maestro, é un discepolo in potenza, può diventarlo in atto se decide, con la propria libertà, che non può esserlo ad uso esclusivo delle proprie forze e senza una volontà radicale di cambiamento.
Di tutta la folla che lo seguiva, sotto la Croce, a Gerusalemme, non rimarranno che pochi e veri discepoli. Per chi decide di seguirlo, il ritmo sarà sempre quello di moto: da luogo (da cuore) a luogo (a cuore) – verso di Lui. “Non puoi essere mio discepolo”: ripetuto tre volte non é ultimatum, é litania, invocazione, proposta di una vita piena e sapiente. Come a dire “patti chiari, amicizia lunga”. Tre sono le condizioni: amare Dio in modo assoluto, portare la croce, rinunciare ad avere. Nessuna illusione, dunque: i pesi si portano, le cose si lasciano, gli affetti vanno relativizzati nello spazio di un Amore totale e assoluto. L’unica ricchezza del discepolo é la sua povertá, perché la povertà é il volto concreto dell’amore: chi ama da’ tutto quello che ha, quando non ha più nulla dona se stesso ed é se stesso. L’invito del Maestro é di sedersi – preferibile di gran lunga al peregrinare a zonzo – di discernere, di preventivare, e di considerare guadagno solo il morire agli occhi del mondo. Di decidersi, e di intraprendere il cammino solo quando si è individuata la direzione giusta: «Le decisioni sono un modo per definire se stessi. Sono il modo per dare vita e significato ai sogni. Sono il modo per farci diventare ciò che vogliamo» (Sergio Bambaren).
Il Maestro, nella sua volontà di salvezza universale, si volta – «Lui che non seppellisce i nostri nomi nel parco delle rimembranze, ma li evoca uno ad uno dalla massa indistinta delle nebulose e, pronunciandoli, con la passione struggente dell’innamorato, li incide sulle rocce dei colli eterni…» (don Tonino Bello) – per arruolare seguaci convinti che non si arrestino alle prime velleità, grandi guerrieri che abbiano mani addestrate alla guerra e dita alla battaglia (cfr. Sal 143, 1). Un campo di battaglia è, infatti, il discepolo. Di una guerra tra due re: uno re di menzogna, l’altro Re della vita e della libertà. Uno re di averi, l’altro Re di doni. L’eterna battaglia tra il male e bene: Satana e Dio. E’ veramente una guerra la vita dell’uomo sulla terra (cfr. Gb 7, 1), ma nel disarmo del peccato prorompe la grazia: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (cfr. 2Cor 12, 9). Niente armi, dunque: la guerra si vince solo con un mucchio di sale. Il vero discepolo di Cristo deve sapere di sale. Per insaporire i propri sogni coi sogni di Dio. Per condire la propria vita con quella del Maestro.
Una torre, una guerra e un po’ di sale: nessuna logica umana potrebbe unire sotto una frase di senso compiuto i tre sostantivi. Per la grammatica di Dio, invece, sono sostantivi che descrivono la vera sequela.

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